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Suprema Corte di Cassazione

sezione V

sentenza n. 769  del 8 gennaio 2013

Svolgimento del processo

Con sentenza del 4.4.2011 la corte di appello di Palermo confermava la sentenza con cui il giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Palermo, in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato C.M., imputata, in qualità di amministratrice e titolare della ditta individuale M.C., con insegna “(omissis)”, dichiarata fallita con sentenza del 12.7.2004 del Tribunale di Palermo, dei reati di cui all’art. 216 L. Fall., comma 1, n. 2, artt. 219 e 223 L. Fall., (capo a) e art. 220 L. Fall., (capo b); art. 110, c.p. e art. 216, comma 1, artt. 219, 223, L. Fall., (capo c) e D.L.F., figlia della C., imputata in concorso con quest’ultima del solo reato di cui al capo c), alla pena, rispettivamente, la C. di anni due mesi due di reclusione e la D.L. di anni due di reclusione, condonata e condizionalmente sospesa per quest’ultima, mentre alla C. veniva anche applicata la pena accessoria di cui all’art. 216, u.c., L. Fall., per la durata di dieci anni, nonchè al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio.

Avverso tale sentenza, di cui chiedono l’annullamento, hanno proposto ricorso le imputate, a mezzo del loro difensore di fiducia, articolando quattro motivi di impugnazione.
Con il primo la C. lamenta i vizi di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione agli artt. 216 e 217, L. Fall., artt. 516 e 521 c.p.p., artt. 27 e 111 Cost., in quanto sulla base delle risultanze processuali l’imputata C. non poteva essere condannata per il delitto di cui al capo a) dell’imputazione, essendo tutt’al più configurabile nei suoi confronti il delitto di bancarotta semplice documentale cui all’art. 217, comma 2, L. Fall., non avendo l’imputata mai posto in essere le condotte di falsificazione, distruzione o di occultamento a lei contestate, che non possono configurarsi nel caso in esame, in cui alla C. si può addebitare non una condotta positiva volta alla sottrazione, distruzione, falsificazione, tenuta irregolare o incompleta delle scritture contabili, ma solo di avere semplicemente tenuto, sino al 1999, la contabilità in regime semplificato, come previsto dalla normativa fiscale, e di non avere tenuto le scritture contabili nei tre anni anteriori alla dichiarazione di fallimento, quando l’attività imprenditoriale si era interrotta, una condotta, in altri termini, meramente omissiva, inidonea ad integrare il delitto di bancarotta fraudolenta documentale, con conseguente violazione del principio della correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza, di cui all’art. 521 c.p.p., non rinvenendosi, peraltro, nel corpo della sentenza di secondo grado, nemmeno adeguata motivazione sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta documentale per cui la C. ha riportato condanna.
Con il secondo motivo le ricorrenti deducono il vizio di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), in relazione agli artt. 1 e 216 L. Fall., art. 2 c.p., comma 4 e art. 3 Cost., in quanto, dovendosi ricondurre la ditta individuale di cui era titolare la C., in ragione dell’attività svolta (esercizio di una piccola attività di scuola materna ed elementare privata), alla categoria del piccolo imprenditore, che, ai sensi delle modifiche apportate alla L. Fallimentare dal D.Lgs. n. 5 del 2006 e dal D.Lgs. n. 169 del 2007, non è più assoggettabile al fallimento, viene meno uno degli elementi costituitivi dei reati ad esse ascritti, in virtù del principio stabilito dall’art. 2 c.p., comma 4.
Con il terzo motivo le ricorrenti eccepiscono la violazione di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione sia all’art. 220 L. Fall., non essendovi la prova che la sentenza dichiarativa di fallimento sia stata notificata alla C., presupposto indefettibile per ritenere integrata la violazione di cui alla menzionata disposizione normativa in quanto è da tale momento che decorre il termine perentorio di 24 entro il quale vanno depositate le scritture contabili, sia in relazione all’art. 216, comma 1, n. 1, L. Fall., in quanto dagli atti risulta che la D. L. non ha creato la nuova scuola materna ed elementare attraverso la distrazione del complesso di beni attraverso i quali si svolgeva l’attività della precedente ditta individuale M. C. con insegna “(omissis)”, ma attraverso un personale sacrificio economico, senza peraltro che la corte territoriale abbia indicato i beni, le attrezzature ed i mezzi oggetto di distrazione, fatta eccezione per alcuni beni di modesto valore (consistenti in banche, lavagne, sedie, armadietti, cattedra), la cui eventuale sottrazione non avrebbe causato alcun pregiudizio ai creditori, tanto da non trovare nessun acquirente ed essere stati abbandonati dal curatore presso i locali della ditta della D.L., che non ne ha mai rivendicato il possesso, per cui non si può ritenere che quest’ultima abbia, per mezzo di una diversa compagine, continuato l’attività imprenditoriale della madre.

Con il quarto motivo le ricorrenti eccepiscono la violazione di cui all’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), in relazione agli artt. 62 bis, 69 e 133 c.p., art. 219, comma 3, L. Fall., lamentando: 1) l’eccessivo rigore della condanna inflitta alla D.L.; 2) il mancato riconoscimento in favore della C. del giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, pur concesse, sulla ritenuta circostanza aggravante; 3) il mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 219, comma 3, L. Fall.;
4) la mancata riduzione della durata della pena accessoria di cui all’art. 216 L. Fall., comminata alla C., che non può essere superiore al “quantum” della pena detentiva principale.

Motivi della decisione

Il ricorso presentato nell’interesse di C.M. e di D. L.F. non può essere accolto.
In via preliminare va rilevato che nell’esaminare i motivi di ricorso si procederà ad una lettura integrata delle sentenze di primo e di secondo grado, da considerare un prodotto unico, in quanto la decisione della corte territoriale e quella del giudice per le indagini preliminari hanno utilizzato criteri omogenei di valutazione e seguito un apparato logico argomentativo uniforme (cfr. Cass., sez. 3, 1.2.2002-12.3.2002, n. 10163, Lombardozzi D., rv. 221116).
Ciò posto, quanto al primo motivo di ricorso, va premesso che la violazione del principio di cui all’art. 521, c.p.p., in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, si verifica, come è noto, in presenza solo di una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l'”iter” del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione, (cfr, ex plurimis, Cass., sez. 4, 16/02/2012, n. 17069, G. e altro). Orbene nel caso in esame la C., che, in realtà, contesta la sussistenza del fatto-reato per il quale è stata condannata come descritto nel capo a) dell’imputazione (art. 216, comma 1, n. 2, artt. 219 e 223 L. Fall., “per avere distrutto o comunque occultato i bilanci e le scritture contabili della società allo scopo di impedire la ricostruzione del patrimonio della fallita”), non indica in che modo, durante lo svolgimento del processo, si sarebbe trovata nella impossibilità di difendersi concretamente in ordine all’oggetto dell’imputazione.
Sul punto, peraltro, la corte territoriale ha reso adeguata motivazione, attenendosi ai principi di diritto in precedenza indicati ed evidenziando, in particolare, come le imputate abbiano avuto “ampio modo di esercitare le proprie difese su tutti gli elementi posti a fondamento della decisione, emersi dalle “risultanze probatorie che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione”, rappresentati dagli “accertamenti peritali disposti”; dalle “verifiche compiute dal curatore, per ciò stesso ben a conoscenza di entrambe le appellanti”; dall’escussione del consulente fiscale L. F.P. (cfr. pp. 3-4 dell’impugnata sentenza).
Il motivo di ricorso riguardante la menzionata censura deve, dunque, ritenersi inammissibile, perchè generico e meramente ripetitivo di una questione prospettata in appello, su cui è stata fornita idonea risposta dalla corte territoriale. Non fondati sono gli ulteriori rilievi esposti nel primo motivo di ricorso.
Al riguardo si osserva, innanzitutto, che anche le imprese sottoposte ad un regime tributario di contabilità semplificata sono obbligate alla tenuta delle scritture e dei libri di cui all’art. 2214 c.c., ed in modo particolare del librogiornale e del libro degli inventari che lo stesso art. 2214 c.c., indica come scritture contabili obbligatorie per chi esercita un’attività commerciale, sia ai fini civili che a quelli penali previsti dalla L. Fallimentare (cfr., ex plurimis, Cass., sez. fer., 6.8.2009, n. 33402, Castrogiovanni, rv. 244842).

Ne consegue che ove la condotta illecita si sostanzi non nella semplice omissione di tale tenuta, ma in un fatto di bancarotta pre- fallimentare consistente nella distruzione (cioè nell’eliminazione fisica delle scritture contabili o di quanto in esse annotato) o nella sottrazione delle scritture medesime (che, a sua volta, si risolve nella indisponibilità, totale o parziale, delle scritture contabili attraverso il loro occultamento o con il renderne impossibile o difficoltosa la materiale apprensione), finalizzate ad evitare l’apprensione delle scritture medesime da parte degli organi fallimentari, come nel caso in esame in cui il curatore fallimentare non ha rinvenuto le scritture contabili della ditta individuale, fatta eccezione per un registro vendite relativo al solo periodo 11.12.2000-30.6.2001 ed un registro acquisti relativo al solo periodo 31.1.2000-30.6.2001, appare configurarle non il delitto di bancarotta semplice documentale di cui all’art. 217, comma 2, L. Fall., ma il più grave delitto di bancarotta fraudolenta documentale come previsto in una delle prime tre ipotesi disciplinate dall’art. 216, comma 1, n. 2, L. Fall., reato, come è noto, di pura condotta, per la cui realizzazione non si richiede il verificarsi dell’evento della concreta impossibilità di ricostruire il patrimonio o il movimento degli affari dell’impresa dichiarata fallita (cfr. Cass., sez. 6, 13.1.1994, n. 4038, D’Episcopo).
Proprio il mancato rinvenimento delle scritture contabili obbligatorie per legge (libro giornale e libro degli inventari), dal quale il giudice per le indagini preliminari, con motivazione approfondita ed immune da vizi, condivisa dalla corte di appello, ha desunto la soppressione o l’occultamento delle scritture medesime, non essendo stato possibile alla curatela, in loro mancanza ed alla luce della scarsa documentazione fornita, ricostruire la situazione patrimoniale e del movimento degli affari della ditta (cfr. pp. 5-6 della sentenza impugnata), non consente di ritenere sussistente, come pure prospettato dalla ricorrente, la diversa fattispecie delittuosa di cui all’ultima delle ipotesi disciplinate dall’art. 216, comma 1, n. 2, L. Fall., (avere tenuto le scritture contabili “in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari”), che, in ogni caso, giova rilevare, è sottoposta al medesimo trattamento sanzionatorio delle precedenti, per cui, non ravvisandosi, come si è detto, alcuna violazione del principio sancito dall’art. 521 c.p.p., in danno delle ricorrenti, difetta un concreto interesse della C. ad ottenerne il riconoscimento.
Quanto all’elemento soggettivo, rappresentato in questo caso dal dolo specifico, cioè dalla necessità che la condotta sia finalizzata allo scopo di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, in previsione della possibilità del fallimento, (cfr. Cass., sez. 5, 17/12/2008, n. 1137, V., rv 242550; Cass., sez. 5, 13/10/1993, n. 11329, Trombetta, rv 195896), proprio il mancato deposito ed il mancato rinvenimento delle menzionate scritture contabili obbligatorie per legge hanno reso impossibile, come si è detto, per gli organi del fallimento la ricostruzione della situazione patrimoniale e del movimento degli affari della impresa individuale dichiarata fallita, circostanza che, pur non assumendo rilievo ai fini della integrazione dell’elemento oggettivo della ritenuta ipotesi di bancarotta fraudolenta, assume, per converso, valore pregnante per dimostrare l’esistenza del dolo specifico, cioè della volontà di arrecare un pregiudizio ai creditori in previsione del possibile fallimento (cfr. p. 6 della sentenza di primo grado), che, peraltro, emerge anche dal concomitante elemento della incompleta documentazione messa a disposizione degli organi del fallimento, rappresentata dal registro vendite e dal registro acquisti indicati in precedenza.
Va, infine, sottolineato che ove anche si volesse qualificare la condotta illecita di cui si discute in termini di mera omissione delle scritture contabili obbligatorie, ipotizzando, come prospettano le ricorrenti, che la contabilità, almeno per un certo periodo di tempo, non sia stata mai tenuta, sarebbe pur sempre configurabile (senza alcuna lesione, per le ragioni già esposte, del diritto di difesa delle imputate) non il delitto di bancarotta documentale semplice, ma quello più grave di bancarotta fraudolenta documentale di cui all’ultima ipotesi dell’art. 216, comma 1, n. 2, L. Fall., che, per costante giurisprudenza di questa Sezione, ricorre quando sia stata raggiunta la prova, come nel caso in esame, che l’omessa tenuta delle scritture contabili è mirata ad impedire la ricostruzione della situazione patrimoniale e del movimento degli affari della impresa individuale dichiarata fallita, finalità resa particolarmente evidente dalla connessione di tale omissione con i fatti distrattivi di cui al capo c) dell’imputazione, di cui risponde anche la D.L. (cfr. Cass., sez. 5, 11.6.2009, n. 32173, Drago, rv. 244494; Cass., sez. 5, 25.5.2006, Chiarie; Cass., sez. 5, 25.6.1992, n. 9103, Ruzza; Cass., sez. 5; Cass., sez. 5, 18.10.2005, n. 6769, rv 233997).

Quanto al secondo motivo di ricorso, se ne deve rilevare l’infondatezza.

Si osserva a tale proposito che la prospettazione difensiva trova riscontro in un orientamento formatosi in passato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di reati fallimentari spetta al giudice penale il potere-dovere di verificare autonomamente, tra l’altro, se l’imputato possa o meno essere considerato piccolo imprenditore, non soggetto, come tale, a fallimento, per cui, rappresentando la dichiarazione di fallimento un elemento costitutivo del reato di bancarotta ed assumendo, di conseguenza, le modifiche normative incidenti sui relativi presupposti rilevanza ai fini dell’applicabilità della disciplina dettata dall’art. 2 c.p. in materia di successione di leggi penali nel tempo, deve ritenersi che, anche nel caso in cui la suddetta qualità di piccolo imprenditore sia stata esclusa dal tribunale fallimentare, in applicazione della disciplina transitoria dettata dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 150, sulla base della originaria formulazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 1, il giudice penale debba ciononostante far riferimento, invece, alla nuova e più favorevole formulazione di tale norma, introdotta dal cit. D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 1 ed escludere, quindi, la configurabilità del reato ove, secondo tale formulazione, la qualità di piccolo imprenditore debba essere riconosciuta, (cfr. Cass., sez. 5, 18.10.2007, n. 43076, Rizzo).
Tale orientamento, tuttavia, risulta ormai da tempo superato dalla nota pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, n. 19601 del 28.2.2008, rv 239398, che ha statuito il diverso principio in base al quale il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta R.D. 16 marzo 1942, n. 267, ex artt. 216 e seguenti non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza dell’impresa e ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste per la fallibilità dell’imprenditore, sicchè le modifiche apportate all’art. 1 del R.D. n. 267 del 1942, dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 e dal D.Lgs. 12 settembre 2007, n. 169, non esercitano influenza ai sensi dell’art. 2 c.p., sui procedimenti penali in corso, principio successivamente ribadito da altre decisioni delle sezioni semplici intervenute al riguardo (cfr. Cass., sez. 5, 8.1.2009, n. 9279, Carottini, rv. 243160; Cass., sez. 5, 8.5.2009, n. 40404, Melucci, rv. 245427; Cass., sez. 5, 8.4.2008, n. 29907, Calzavara, rv 240444).
Il Collegio ritiene di condividere l’orientamento delle Sezioni Unite, che, peraltro, in materia di art. 2 c.p. e successioni di norme extrapenali nel tempo ha ripreso un orientamento già manifestato dalle stesse Sezioni Unite con sentenza 27.9.2007 – 16.1.2008, secondo il quale deve ritenersi inapplicabile il principio previsto dall’art. 2 c.p., qualora si tratti di modifiche della disciplina integratrice della fattispecie penale che non incidano sulla struttura essenziale del reato, ma comportino esclusivamente una variazione del contenuto del precetto delineando la portata del comando, lasciando integro il disvalore sociale della condotta, che non è venuta meno con la nuova normativa, essendosi il legislatore limitato a modificare i presupposti per l’applicazione della norma incriminatrice penale, per cui appare del tutto irragionevole ritenere che siffatte modifiche retroagiscano (cfr.Cass., sez. 5, 21/09/2011, n. 40324, C.G. e altro).

In relazione poi al terzo motivo di ricorso, va osservato che la rituale comunicazione della sentenza dichiarativa di fallimento al fallito, presupposto del reato di cui all’art. 220 L. Fall., contestato nel capo b) dell’imputazione, da cui decorre il termine di legge entro il quale occorre provvedere al deposito della documentazione indicata dall’art. 16, n. 3, L. Fall., (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 5, 30.6.2005, n. 40816, Infantino, rv 232801), si è regolarmente compiuta, risultando dagli atti (consumabili dal Collegio, attenendo la relativa censura ad un error in procedendo) che la sentenza dichiarativa di fallimento della ditta individuale pronunciata dal tribunale di Palermo è stata notificata alla C. il 16.7.2004 presso lo studio dell’avv. Francesco Paolo Di Trapani, ubicato in Palermo, alla via Dante, n. 55, dove l’imputata era elettivamente domiciliata, nonchè a mani della stessa il 27.7.2004, per cui la doglianza difensiva sul punto appare infondata.

Con riferimento, poi, all’ulteriore rilievo prospettato sempre con il terzo motivo di ricorso, se ne deve rilevare l’inammissibilità, in quanto con esso le ricorrenti prospettano una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preclusa in sede di giudizio di cassazione (cfr. Cass., sez. 1, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, rv. 235507; Cass., sez. 6, 3.10.2006, n. 36546, Bruzzese, rv. 235510; Cass., sez. 3, 27.9.2006, n. 37006, Piras, rv. 235508). Ed invero non può non rilevarsi come il controllo del giudice di legittimità, pur dopo la novella dell’art. 606 c.p.p., ad opera della L. n. 46 del 2006, si dispiega, pur a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi atti del processo, e di una correlata pluralità di motivi di ricorso, in una valutazione necessariamente unitaria e globale, che attiene alla reale esistenza della motivazione ed alla resistenza logica del ragionamento del giudice di merito, essendo preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (cfr. Cass., sez. 6, 26.4.2006, n. 22256, Bosco, rv. 234148).
Orbene, nel caso in esame, i giudici di merito, con motivazione approfondita ed immune da vizi, hanno evidenziato come, sulla base di una pluralità di elementi probatori puntualmente individuati e valutati, si sia verificata una sostanziale continuità tra l’attività della ditta individuale “(OMISSIS)” della C. M., dichiarata fallita, e quella della scuola materna ed elementare “(OMISSIS)”, figlia della C., ubicata presso gli stessi locali della ditta fallita, dove venivano utilizzati i beni strumentali facenti parte del patrimonio della scuola fallita (banchi, lavagne, sedie, armadietto, cattedra, computer con stampante, fotocopiatrice), rinvenuti nelle singole aule e nella segreteria della nuova scuola (cfr. pp. 6-7 della sentenza di primo grado e pp. 5-7 della sentenza della corte di appello). Quanto alle plurime doglianze prospettate in ordine al trattamento sanzionatorio con il quarto motivo di ricorso, si osserva che quella relativa all’eccessiva severità del trattamento sanzionatorio riservato alla D.L., secondo la prospettazione difensiva non giustificabile, “sia in termini assoluti, sia in relazione al confronto con la pena dell’altra imputata”, in considerazione del ruolo di extraneus svolto dalla D.L., appare infondata. Non può non rilevarsi, infatti, che la motivazione in ordine alla determinazione della pena base ed alla diminuzione o agli aumenti operati per le eventuali circostanze aggravanti o attenuanti, è necessaria solo quando la pena inflitta sia di gran lunga superiore alla misura media edittale. Fuori di questo caso anche l’uso di espressioni come “pena congrua”, “pena equa”, “congrua riduzione”, “congruo aumento” o il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere dell’imputato sono sufficienti a far ritenere che il giudice abbia tenuto presente, sia pure globalmente, i criteri dettati dall’art. 133 c.p. per il corretto esercizio del potere discrezionale conferitogli dalla norma in ordine al “quantum” della pena (cfr, ex plurimis, Cass., sez. 5, 29/08/1991, Ormando).

Orbene nel caso in esame la corte territoriale, nel confermare anche sotto questo profilo la sentenza di primo grado, si è puntualmente attenuta a tale criterio, in quanto, tenuto conto che la pena base per il delitto contestato alla D.L. è stata individuata dal giudice per le indagini preliminari in anni tre mesi quattro di reclusione, in misura, quindi, prossima al minimo edittale previsto dall’art. 216, comma 1, L. Fall., in anni tre di reclusione, il giudice di primo grado ha più che adeguatamente motivato l’esercizio, sul punto, del suo potere discrezionale, ritenendo adeguata siffatta pena, dopo avere concesso alla D.L. le circostanze attenuanti generiche ed avere escluso nei suoi confronti la circostanza aggravante di cui all’art. 219, L. Fall. (cfr. p. 7 della sentenza impugnata e pp. 7-8 della sentenza di primo grado).
Infondata si appalesa anche la censura difensiva in ordine al giudizio di comparazione tra le circostanze attenuanti generiche riconosciute alla C. e la circostanza aggravante di cui all’art. 219 L. Fall., svolto in termini non di prevalenza, come preteso dalla ricorrente, ma di equivalenza.
Infatti, in tema, di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione delle circostanze, nonchè per quanto riguarda in generale la dosimetria della pena, è da ammettere anche la cosiddetta motivazione implicita o con formule sintetiche (tipo “si ritiene congrua”), ma anche quando si impone un obbligo di motivazione espressa, le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra le circostanze e, quindi, alla quantificazione della pena, effettuato in riferimento ai criteri di cui all’art. 133 c.p., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (cfr. Cass., sez. 4, 08/04/2008, n. 25279, G.; Cass., sez. 6, 08/07/2009, n. 30346, A. e altro).
In questo caso il giudice per le indagini preliminari, con motivazione fatta propria dalla corte territoriale, ha adeguatamente giustificato la sua decisione sul punto, evidenziando come sulla base della valutazione della gravità dei fatti e della personalità dell’imputata, le circostanze attenuanti generiche devono considerarsi equivalenti alla ritenuta circostanza aggravante di cui all’art. 219 L. Fall., (cfr p. 7 della sentenza di primo grado).
In relazione, poi, all’invocata applicazione della circostanza attenuante di cui all’art. 219, comma 3, L. Fall., si tratta di una doglianza inammissibile, perchè generica, in quanto le ricorrenti ne giustificano il riconoscimento in considerazione della “rilevante tenuità del danno patrimoniale che eventualmente si ritiene possa essere stato cagionato alle ragioni della curatela” (cfr. p. 23 del ricorso), mentre, assumendo valore decisivo ai fini della valutazione del danno arrecato dal reato di bancarotta nelle sue diverse manifestazioni, che rappresenta il presupposto necessario per il riconoscimento della sussistenza della circostanza attenuante di cui si discute, secondo il costante orientamento del Supremo Collegio, la diminuzione patrimoniale cagionata direttamente ai creditori dal fatto di bancarotta e, con particolare riferimento alla bancarotta documentale, la differenza che la mancanza dei libri o delle scritture contabili ha determinato nella quota complessiva dell’attivo da ripartire tra i creditori, avendo riguardo al momento della consumazione del reato (cfr. Cass., sez. 5, 13.2.1986, n. 8244, Pilon, rv. 173567; Cass., sez. 5, 28.1.1977, n. 6522, Spreti, rv. 135980), sarebbe stato onere delle ricorrenti individuare specificamente gli elementi su cui fondare la valutazione del danno derivante dai diversi fatti di bancarotta per i quali hanno riportato condanna in termini compatibili con la previsione normativa di cui al citato art. 219, comma 3, L. Fall..
Deve considerarsi infondata, infine, anche la doglianza sulla mancata riduzione della durata della pena accessoria inflitta alla C., in quanto, come chiarito da tempo dall’orientamento prevalente in sede di legittimità cui questo Collegio ritiene di aderire, la pena accessoria che consegue alla condanna per il delitto di bancarotta fraudolenta ai sensi dell’alt. 216, u.c., L. Fall., è indicata in misura fissa e inderogabile dal legislatore nella durata di anni dieci quindi, a prescindere dalla durata della pena principale, con conseguente inapplicabilità dell’art. 37 c.p. (cfr. Cass., sez. 5, 30.5.2012, n. 30341, Pinelli e altri, rv 253318; Cass., sez. 5, 10.11.2010, n. 269, Marianella, rv 249500; Cass., sez. 5, 18.2.2010, n. 17690, Cassa di risparmio di Rieti s.p.a. e altri, rv 247319), orientamento che non risulta disatteso da un recente intervento della Corte Costituzionale, sollecitata a pronunciarsi sulla compatibilità costituzionale della disposizione normativa di cui al citato art. 216, u.c., L. Fall., dai giudici di merito e dalla stessa Corte di Cassazione, avendo il Giudice delle leggi, con sentenza n. 134 del 2012, dichiarato inammissibili le prospettate questioni di costituzionalità, in quanto relative a materia riservate alla discrezionalità del legislatore, risolvendosi le suddette questioni in una richiesta di pronuncia additiva a contenuto non costituzionalmente obbligato.
Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso proposto nell’interesse di C.M. e di D.L.F. va, dunque, rigettato, ai sensi dell’art. 615 c.p.p., comma 2, con condanna di ciascuna delle ricorrenti, giusto il disposto dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna ciascuna ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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