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Suprema Corte di Cassazione

sezione VI
Ordinanza 28 gennaio 2014, n. 1725

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LA TERZA Maura – Presidente
Dott. MANNA Antonio – Consigliere
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere
Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere
Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 9570-2012 proposto da:
(OMISSIS) SPA (OMISSIS) – societa’ con socio unico in persona del Responsabile della Direzione Affari legali della Societa’, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso l’AREA LEGALE TERRITORIALE CENTRO della Societa’, rappresentata e difesa dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS), giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che li rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrenti –
nonche’ contro
(OMISSIS), (OMISSIS);
– intimati –
avverso la sentenza n. 2620/2011 della CORTE D’APPELLO di ROMA del 22.3.2011, depositata il 07/04/2011;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/11/2013 dal Consigliere Relatore Dott. CATERINA MAROTTA;
udito per i controricorrenti l’Avvocato (OMISSIS) (per delega avv. (OMISSIS)) che si riporta agli scritti;
E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. SERVELLO Gianfranco che si riporta alla relazione scritta.
FATTO E DIRITTO
1 – Considerato che e’ stata depositata relazione del seguente contenuto:
“Con sentenza del 25 maggio 2007, il Tribunale di Roma accoglieva la domanda di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), quali eredi di (OMISSIS), nei confronti della s.p.a. (OMISSIS), di accertamento della nullita’ della clausola del contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro, che stabiliva l’automatico collocamento a riposo del personale al raggiungimento della massima anzianita’ contributiva e pertanto di annullamento del conseguente atto di risoluzione del rapporto, con condanna della societa’ al risarcimento in favore delle retribuzioni di fatto maturate e non percepite dal de cuius dall’interruzione del rapporto al decesso.
A seguito di appello della societa’ (OMISSIS), la Corte di appello di Roma, con sentenza n. 2620/2011 del 7 agosto 2011, confermava la decisione di primo grado, escludendo la nullita’ del ricorso introduttivo del giudizio, l’intervenuta acquiescenza in ordine alla domanda di risarcimento del danno, la violazione del principio del ne bis in idem, l’intrasmissibilita’ agli eredi.
Avverso tale sentenza propone ora ricorso per cassazione la societa’, deducendo:
– la violazione dell’articolo 1372 c.c., per non avere la Corte di merito accolto l’eccezione di inammissibilita’ delle domande per intervenuta acquiescenza alla risoluzione del rapporto di lavoro;
– la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1227 cod. civ. laddove la sentenza ha completamente disatteso un punto decisivo della controversia imperniato sulla intervenuta acquiescenza nei confronti della richiesta di risarcimento del danno;
– la violazione o falsa applicazione dell’articolo 324 cod. proc. civ. e dell’articolo 2909 cod. civ. laddove la sentenza impugnata ha ritenuto che non fosse stato violato il principio del ne bis in idem;
– la omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio laddove il giudice di appello ha omesso di motivare in ordine alla eccezione sollevata dalla difesa della societa’ di assenza di qualunque prova dei presunti danni subiti e dell’entita’ degli stessi.
Resistono con controricorso (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS).
Il ricorso si palesa manifestamente manifestamente infondato.
Il primo motivo investe la sentenza della Corte territoriale laddove questa ha escluso che il solo comportamento omissivo tenuto per un certo tempo dal lavoratore in ordine all’atto datoriale di comunicazione della risoluzione del rapporto di lavoro configuri una risoluzione di questo per mutuo consenso.
In proposito va ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, cui il collegio aderisce, e’ suscettibile di essere sussunto nella fattispecie legale di cui all’articolo 1372 c.c., comma 1, il comportamento delle parti che determini la cessazione della funzionalita’ di fatto del rapporto lavorativo a termine in base a modalita’ tali da evidenziare il loro disinteresse alla sua attuazione, trovando siffatta operazione ermeneutica supporto nella crescente valorizzazione, che attualmente si registra nel quadro della teoria e della disciplina dei contratti, del piano oggettivo del contratto, a discapito del ruolo e della rilevanza della volonta’ psicologica dei contraenti, con conseguente attribuzione del valore di dichiarazioni negoziali a comportamenti sociali valutati in modo tipico; e cio’ con particolare riferimento alla materia lavoristica ove operano, nell’anzidetta prospettiva, principi di settore che non consentono di considerare esistente un rapporto di lavoro senza esecuzione (cfr., ad es., Cass. 6 luglio 2007 n. 15264; id. 7 maggio 2009 n. 10526).
Al riguardo, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volonta’ chiara e certa delle parti di voler porre fine al rapporto grava sul datore di lavoro che deduce la risoluzione dello stesso per mutuo consenso (cfr. ad es. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070; id. 2 dicembre 2000 n. 15403).
E’, poi, consolidato l’orientamento secondo cui il giudizio sulla configurabilita’ o meno, in concreto, di un tale accordo per facta concludentia, viene devoluto al giudice di merito, la cui valutazione, se adeguatamente motivata, si sottrae a censure in sede di controllo di legittimita’ della decisione (cfr., diffusamente, tra le altre, le sentenze citate).
Cio’ posto in via di principio, si rileva che la Corte territoriale ha elaborato una congrua ed articolata motivazione al riguardo, pervenendo alla conclusione che la tacita risoluzione consensuale invocata da (OMISSIS) s.p.a. non e’ realizzata in quanto “la mera inerzia all’esercizio del diritto entro il termine prescrizionale, in assenza di altri elementi, non puo’ costituire prova della volonta’ abdicativa”. La Corte di merito ha, inoltre, evidenziato che, nel caso in esame, “l’inerzia e’ giustificata dalla pendenza del giudizio relativo al licenziamento fino al 2004, che rendeva ancora sub iudice il presupposto giuridico della domanda risarcitoria e quindi il ritardo nell’esercizio del diritto e’ rimasto nei termini fisiologici di un anno (il ricorso di primo grado e’ stato introdotto all’inizio del 2006)”. La sentenza impugnata ha, dunque, considerato adeguatamente tutte le circostanze che la ricorrente assume omesse rilevando, in ogni caso, correttamente che rispetto alla mera inerzia e’ necessario un quid pluris per configurare l’effetto cancellatorio a seguito del decorso di un tempo inferiore a quello fissato per la prescrizione.
Il secondo motivo e’ inammissibile sia per la mancata produzione del ricorso rispetto al quale la violazione del ne bis in idem si sarebbe verificata sia perche’ la ricorrente si limita a richiamare il principio secondo il quale l’autorita’ di giudicato investe non soltanto quanto dedotto dalle parti ma anche quanto le stesse avrebbero potuto dedurre in ordine al medesimo oggetto, riproponendo pedissequamente l’eccezione formulata in sede di appello (tanto si evince dal contenuto del gravame riprodotto testualmente nel presente ricorso), laddove la Corte di merito ha superato tale censura con articolata motivazione (volta specialmente a contrastare la dedotta sussistenza del medesimo oggetto) che non risulta investita da specifici rilievi.
Il terzo motivo e’ infondato.
Questa Corte ha gia’ da tempo chiarito che non puo’ attribuirsi il valore di un atto di licenziamento, illegittimo in ragione della nullita’ della clausola contrattuale, alla comunicazione con cui il datore di lavoro non abbia manifestato al lavoratore la volonta’ di risolvere il rapporto, ma si sia limitato a richiamare, a fini ricognitivi, la presunta cessazione del rapporto determinata dalla clausola contrattuale collettivo (cfr. Cass. 17 novembre 2000, n. 14882; id., 19 ottobre 2001, n. 12844; 4 aprile 2002 n. 4836; 30 aprile 2010, n. 10527).
Alla luce di detto principio puo’ affermarsi che la nullita’ della clausola contrattuale, da cui la societa’ datrice di lavoro pretendeva di far derivare l’automatica cessazione del rapporto di lavoro, ha determinato la continuita’ giuridica dello stesso secondo le modalita’ preesistenti, fino al verificarsi di una legittima causa di risoluzione. Pertanto il datore di lavoro, avendo rifiutato la prestazione lavorativa collocando a riposo il dipendente contro la sua volonta’, versa in mora accipiendi dalla data in cui quest’ultimo gli ha fatto offerta della prestazione, costituendolo in mora, ed e’ obbligato al risarcimento del danno causato dalla propria inadempienza contrattuale, danno che puo’ essere individuato nella mancata corresponsione delle retribuzioni.
In applicazione, poi, dei principi comuni in tema di responsabilita’ contrattuale, il diritto al risarcimento puo’ riconoscersi solo a decorrere dal momento in cui il lavoratore mise a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative, offrendo l’esecuzione della prestazione. Tale presupposto deve ritenersi realizzato, come correttamente sostenuto dalla Corte di appello, gia’ al momento dell’operativita’ della risoluzione (15/9/96) visto che il (OMISSIS), come si evince dalla puntuale indicazione contenuta nel controricorso, prima ancora di tale operativita’ (e cioe’ con richiesta del 12/1/96 – doc. 2 fase, di primo grado -) aveva rappresentato all’azienda la propria volonta’ di rimanere in servizio mettendo cosi’ a disposizione della stessa le proprie energie lavorative. Peraltro, non si rileva dal contenuto dell’atto di appello, come riprodotto nel ricorso per cassazione, che fosse stata posta specificamente dalla societa’ la questione del momento iniziale da cui far decorrere il risarcimento essendo le censure incentrate solo sull’inesistenza del danno in ragione della percezione da parte del (OMISSIS) del trattamento pensionistico.
Anche il quarto motivo e’ infondato.
Non puo’ essere condivisa la necessita’ di detrarre, a titolo di aliunde perceptum, dal complessivo ammontare del risarcimento il trattamento di pensione percepito a seguito del collocamento in quiescenza (invero parte ricorrente pone tale questione non tanto ai fini della detrazione bensi’ per sostenere la mancanza di un danno risarcibile che, a ben guardare, e’ argomento che introduce comunque la problematica della sussistenza e rilevanza di fatti che incidano sull’entita’ del risarcimento -fino eventualmente ad escluderlo – ).
E’ pur vero che, in linea di principio, l’applicazione del principio della compensatio lucri cum damno – volto ad evitare che il risarcimento del danno si risolva in un indebito arricchimento del danneggiato – trova applicazione ogni volta che si affermi il diritto al ripristino del rapporto di lavoro (indipendentemente dall’applicazione della Legge n. 300 del 1970, articolo 18), “sicche’ al lavoratore spetta un risarcimento commisurato alle retribuzioni non percepite, ma dal suddetto importo sono deducibili i ricavi che sarebbero stati incompatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa e resi possibili, quindi, solo dalla sua interruzione” (cfr. Cass., sez. un., 22 marzo 1995, n. 3319; Cass. 3 novembre 2000, n. 14387).
A tale fine non e’ dubitabile che il giudice debba tenere conto in generale, a titolo di aliunde perceptum ed in applicazione del richiamato principio della compensatio lucri cum damno, di tutte le attribuzioni patrimoniali, senza distinzioni – ivi comprese, sia pure in astratto come di seguito si vedra’, quelle derivanti da rapporti previdenziali o assistenziali – “allorquando l’illegittima alterazione del rapporto di lavoro costituisca evento generatore unico tanto del diritto all’erogazione quanto del mancato guadagno del lavoratore” (Cass. n. 14387/2000 cit.).
Tuttavia, se in astratto puo’ convenirsi che anche i trattamenti previdenziali sono ricollegabili allo stesso fatto che ha generato il danno risarcibile (cioe’ l’illegittima alterazione del rapporto), ai fini della loro detraibilita’ dal risarcimento spettante al lavoratore non puo’ non tenersi conto della precarieta’ dell’acquisizione patrimoniale medesima. Ed infatti, questa Corte, nella pronuncia a Sez. Un. del 13 agosto 2002, n. 12195 ha cosi’ affermato: “In caso di licenziamento illegittimo del lavoratore, il risarcimento del danno spettante a quest’ultimo a norma della Legge n. 300 del 1970, articolo 18 commisurato alle retribuzioni perse a seguito del licenziamento fino alla riammissione in servizio, non deve essere diminuito degli importi eventualmente ricevuti dall’interessato a titolo di pensione, atteso che il diritto al pensionamento discende dal verificarsi di requisiti di eta’ e contribuzione stabiliti dalla legge, sicche’ le utilita’ economiche che il lavoratore ne ritrae, dipendendo da fatti giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono all’operativita’ della regola della compensatio lucri cum damno. Tale compensatio, d’altra parte, non puo’ configurarsi neanche allorche’, eccezionalmente, la legge deroghi ai requisiti del pensionamento, anticipando, in relazione alla perdita del posto di lavoro, l’ammissione al trattamento previdenziale, sicche’ il rapporto fra la retribuzione e la pensione si ponga in termini di alternativita’, ne’ allorche’ il medesimo rapporto si ponga invece in termini di soggezione a divieti piu’ o meno estesi di cumulo tra la pensione e la retribuzione, posto che in tali casi la sopravvenuta declaratoria di illegittimita’ del licenziamento travolge “ex tunc” il diritto al pensionamento e sottopone l’interessato all’azione di ripetizione di indebito da parte del soggetto erogatore della pensione, con la conseguenza che le relative somme non possono configurarsi come un lucro compensabile col danno, e cioe’ come un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore”.
Se allora conseguenza diretta ed immediata della pronuncia di illegittimita’ del licenziamento (id est, come nello specifico, della declaratoria di nullita’ della clausola risolutiva) e’ il venir meno del titolo in base al quale l’appellato ha percepito il trattamento pensionistico, essendo stato ripristinato il rapporto lavorativo dalla cui cessazione detto trattamento aveva avuto origine, qualora tale trattamento sia divenuto una attribuzione sine titulo, il lavoratore reintegrato viene a trovarsi, relativamente ai ratei percepiti, nella posizione di un qualsiasi creditore apparente, esposto in quanto tale ad un’azione di ripetizione dell’indebito da parte dell’ente previdenziale.
Cosi’ stando le cose, poco importa se al momento della pronuncia non puo’ esservi ancora certezza della ripetizione da parte dell’ente interessato, dovendo il giudice porsi nell’ottica del rispetto della legge, secondo la quale alla pronuncia di inefficacia del licenziamento ed al conseguente ripristino del rapporto di lavoro illegittimamente interrotto non puo’ che conseguire l’obbligo giuridico, da parte dell’istituto previdenziale erogatore, di recuperare una prestazione pensionistica divenuta ormai indebita perche’ priva di titolo.
E’ in questa prospettiva che deve escludersi la possibilita’ di detrarre dal risarcimento del danno il trattamento pensionistico percepito dal lavoratore, non potendo ritenersi tale attribuzione acquisita, se non in modo apparente e del tutto precario, al suo patrimonio.
In conclusione, si propone il rigetto del ricorso, con ordinanza, ai sensi dell’articolo 375 cod. proc. civ., n. 5″.
2 – Ritiene questa Corte che le considerazioni svolte dal relatore siano del tutto condivisibili, siccome coerenti alla consolidata giurisprudenza di legittimita’ in materia. Ricorre con ogni evidenza il presupposto dell’articolo 375 c.p.c., n. 5, per la definizione camerale del processo, soluzione non contrastata dalle parti – che non hanno depositato memoria – e condivisa dal Procuratore generale, che ha aderito alla relazione.
3 – Conseguentemente, il ricorso va rigettato.
4 – La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.
P.Q.M.
LA CORTE
rigetta il ricorso; condanna la societa’ ricorrente al pagamento, in favore degli intimati costituiti, delle spese del presente giudizio di legittimita’ che liquida in euro 100,00 per esborsi ed euro 2.500,00 per compensi da attribuirsi all’avv.to (OMISSIS) anticipatario.

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