Corte_de_cassazione_di_Roma

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

ordinanza 9 marzo 2015, n. 4656

Svolgimento del processo

È stata depositata la seguente relazione:
1. R.M., sulla premessa di aver locato un immobile, ad uso commerciale, alla TG s.r.l., con ricorso al Tribunale di Frosinone chiese che la società conduttrice fosse condannata a corrisponderle l’aggiornamento del canone nella misura del 1.00 per cento dell’indice ISTAT maturato da giugno a ottobre 2008, così come risultante dall’art. 5 del contratto di locazione.
Si costituì la società conduttrice, chiedendo il rigetto della domanda e proponendo riconvenzionale al fine di ottenere il rimborso di quanto versato a titolo di aggiornamento del canone dal giugno 2007 e di aumento del canone dal giugno 2008.
Il Tribunale dichiarò la nullità degli arti. 4 e 5 del contratto di locazione e condannò la M. alla restituzione di quanto percepito a titolo di aggiornamento del canone secondo gli indici ISTAT e di aumento dello stesso rispetto alla misura originariamente pattuita. La pronuncia è stata confermata dalla Corte d’appello di Roma, con sentenza dell’8 luglio 2013.
2. Contro la sentenza d’appello ricorre R.M. con atto affidato ad un motivo.
Resiste la TG s.r.l. con controricorso.
3. Osserva il relatore che il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375, 376 e 380-bis cod. proc. civ., in quanto appare destinato ad essere rigettato.
4. Con l’unico motivo di ricorso si denuncia, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3), cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 32 della legge 27 luglio 1978, n. 392, oltre a vizio di motivazione.
4.1. II motivo di ricorso non è fondato.
La sentenza della Corte d’appello, richiamando un costante orientamento di questa Corte, ha specificato che l’art. 32 della legge n. 392 del 1978 ha carattere imperativo e, come tale, non derogabile in senso sfavorevole al conduttore, sia in ordine alla misura dell’aggiornamento del canone (non superiore al 75 per cento) sia in ordine all’onere della preventiva richiesta da parte del locatore. A fronte di tale motivazione, la ricorrente richiama altre pronunce di questa Corte (fra le quali le sentenze 23 febbraio 2007, n. 4210, e 13 maggio 2010, n. 11608), sostenendo che il limite di cui al citato art. 32 non impedirebbe comunque alle parti, in relazione alle locazioni ad uso commerciale, un incremento del corrispettivo della locazione in relazione ad eventi diversi dalla svalutazione monetaria; aggiunge, inoltre, che l’art. 5 del contratto era stato liberamente pattuito e spontaneamente eseguito dalla società conduttrice. E evidente, però, che le sentenze richiamate in ricorso si riferiscono ad un’ipotesi diversa da quella in esame, nella quale – come emerge dalla lettura stessa del ricorso – la domanda della M. era finalizzata ad ottenere l’aggiornamento del canone calcolato (indebitamente) al 100 per cento della variazione dei prezzi al consumo. Proprio la sentenza n. 11608 del 2010, richiamata in ricorso, osserva che «in materia di contratto di locazione di immobili destinati ad uso non abitativo, in relazione alla libera determinabilità convenzionale del canone locativo, la clausola che prevede la determinazione del canone in misura differenziata e crescente per frazioni successive di tempo nell’arco del rapporto, ovvero prevede variazioni in aumento in relazione ad eventi oggettivi predeterminati (del tutto diversi e indipendenti rispetto alle variazioni annue del potere d’acquisto della moneta), deve ritenersi legittima ex artt. 32 e 79 della legge sull’equo canone, salvo che non costituisca un espediente diretto a neutralizzare gli effetti della svalutazione monetaria». Nel caso in esame, invece, l’aggiornamento in misura del 100 per cento dell’indice ISTAT e l’esclusione della necessità della previa richiesta da parte del locatore costituivano – come emerge dalla sentenza in esame – esempi di clausole in contrasto con gli artt. 32 e 79 della legge n. 392 del 1978. 4.2. La censura di cui all’art. 360, primo comma, n. 5), cod. proc. civ. – peraltro posta in termini affatto generici – è inammissibile, non risultando formulata secondo i criteri indicati dalla sentenza delle Sezioni Unite 7 aprile 2014, n. 8053, trovando applicazione nella fattispecie, racione temporis, la modifica di cui al decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134.
5. Si ritiene, pertanto, che il ricorso vada trattato in camera di consiglio per essere rigettato».

Motivi della decisione

1. Non sono state presentate memorie alla precedente relazione. All’udienza camerale è intervenuto il difensore drlli ricorrente, insistendo per l’accoglimento del ricorso.
A seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella camera di consiglio, ritiene il Collegio di condividere i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione medesima e di doverne fare proprie le conclusioni.
2. Il ricorso, pertanto, è rigettato.
A tale esito segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in conformità al d.m. 10 marzo 2014, n. 55.
Sussistono inoltre le condizioni di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi euro 2.800, di cui euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

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