Corte di Cassazione, sezione VI penale, sentenza 21 dicembre 2016, n. 54457

Ai fini della consumazione della calunnia, occorre la specifica e circostanziata attribuzione di un fatto costituente reato a persona identificata o facilmente identificabile di cui sia nota l’innocenza. L’elemento indefettibile del delitto di calunnia consiste, infatti, nell’incolpazione, specifica e circostanziata, di taluno di cui si conosce l’innocenza di un fatto concreto, da cui derivi la possibilità di inizio di un’indagine penale a suo carico da parte dell’autorità

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI penale

sentenza 21 dicembre 2016, n. 54457

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza impugnata, la Corte d’Appello di Messina ha ribadito la responsabilità, già affermata in primo grado, di M.G. in ordine al reato di calunnia in danno di R.N. e L.M. (artt. 368, 61 n. 9 cod. pen., capo 3 dell’imputazione) e di D.S.N. per violazione delle prescrizioni inerenti la sorveglianza speciale (art. 9, comma 2 legge n. 1423 del 1956, capo 5), rideterminando la pena nei confronti del primo imputato a motivo dell’assoluzione dal concorrente reato di cui all’art. 326 cod. pen. ed applicando nei confronti del secondo la misura di sicurezza della libertà vigilata di un anno in relazione alla ritenuta violazione dell’art. 115, comma 2 cod. pen. (accordo per commettere un delitto).2. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso gli imputati, che deducono rispettivamente i seguenti motivi.
2.1 M. Il ricorrente deduce di essere stato condannato già in primo grado per fatto diverso da quello contestatogli, atteso che l’originaria imputazione mossa a suo carico era quella di abuso d’ufficio aggravato, commesso in concorso con S.M. (artt. 110, 323, 61 comma 1 n. 2 cod. pen.).Allega anche di avere tempestivamente dedotto con l’atto di appello (pagg. 24 e 26-27) che il Tribunale non avrebbe potuto condannarlo per il diverso titolo di reato, implicando l’operazione un radicale mutamento del fatto storico, ciò nonostante dovendo registrare l’affermazione della Corte territoriale secondo cui la difesa non aveva contestato “sotto il profilo processuale l’avvenuta riqualificazione del delitto originariamente contestato di cui all’art. 323 cod. pen.” (pag. 4 sentenza impugnata).Il ricorrente ribadisce che il reato per cui è intervenuta condanna è diverso da quello originariamente contestatogli, tenuto conto dei differenti elementi costituitivi delle due fattispecie e che i giudici di merito hanno surrettiziamente modificato l’originaria imputazione, violando gli artt. 521 e 522 cod. pen. oltre che varie norme del diritto dell’Unione Europea e convenzionali internazionali.
L’originaria imputazione di abuso d’ufficio non contiene, infatti, gli elementi costitutivi del delitto di calunnia né quelli della circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 9 cod. pen..
Con riferimento alla calunnia manca, inoltre, l’elemento costitutivo della denuncia di un reato determinato, atteso che l’esposto indicato nell’originaria imputazione fa generico riferimento a presunti illeciti; nella stessa imputazione figurava, altresì, l’avvenuta produzione di un danno ingiusto che non rappresenta, invece, elemento costitutivo della calunnia; gli si contestava, inoltre, di avere commesso il fatto nello svolgimento delle funzioni, elemento per contro non richiesto ai fini dell’integrazione della circostanza aggravante di cui all’art. 61, comma 1 n. 9 cod. pen., secondo la corrente interpretazione fornitane dalla giurisprudenza.
Sempre con riferimento alla calunnia, mancava poi nell’imputazione originaria l’indicazione della consapevolezza da parte dell’imputato dell’innocenza delle persone asseritamente accusate, che connota l’essenza del relativo dolo.
In via subordinata e per l’ipotesi in cui venga stabilito che le sentenze di merito hanno proceduto ad una mera riqualificazione giuridica del fatto, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 6 § 3 lett. a) della Convenzione EDU alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo formatasi sul tema del diritto dell’imputato ad essere informato in maniera dettagliata ed in tempo utile, non soltanto dei fatti materiali che gli vengono contestati e sui quali l’accusa si fonda, ma anche della qualificazione giuridica dei fatti medesimi, nel rispetto del diritto ad un equo pro-cesso garantito dal citato art. 6.Sotto detto profilo deduce, pertanto, la violazione degli artt. 521, comma 1 e 597, comma 3 cod. proc. pen. in relazione all’omessa informazione, preventiva e tempestiva, ricevuta della modifica dell’accusa in maniera atta a consentirgli l’esercizio di un’adeguata difesa.
Il ricorrente deduce, inoltre, la violazione dell’art. 6 della Direttiva 2012/13/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea del 22 maggio 2012 sul diritto all’informazione nei procedimenti penali che stabilisce prescrizioni analoghe a quelle stabilite dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dello Uomo, testo normativo di cui invoca l’applicabilità diretta, atteso il grado di sufficiente precisione delle previsioni ivi contenute e il carattere incondizionato degli obblighi in tal senso imposti agli Stati membri dell’Unione.
Si deduce, infine, l’erronea applicazione dell’art. 368 cod. pen. e l’inosservanza dell’art. 49 cod. pen., evidenziandosi che l’esposto inoltrato all’autorità giudiziaria era stato subito archiviato, non avendo in alcun modo messo in pericolo il bene giuridico protetto poiché del tutto inidoneo a determinare l’apertura di un procedimento penale.
Residui profili di censura riguardano nuovamente il dolo del ritenuto delitto di calunnia, denunciandosi la mancata acquisizione di prove sufficienti a stabilire la falsità delle accuse mosse con l’esposto ovvero la sussistenza della consapevolezza di detta falsità nonché dell’innocenza delle persone accusate, profili sui quali la Corte territoriale ha, peraltro, omesso del tutto di argomentare o ha svolto considerazioni palesemente contraddittorie.
2.2 D.S. .
Tale ricorrente deduce difetto totale di motivazione riguardo ai criteri di determinazione della pena, nonostante l’espresso motivo di gravame articolato con l’atto di appello e l’entità di una sanzione che si discosta in maniera sensibile dal limite minimo edittale; deduce, inoltre, difetto di motivazione in ordine ai presupposti dell’applicazione della misura di sicurezza di cui all’art. 115, comma 2 cod. pen., non avendo la Corte territoriale svolto alcuna argomentazione riferita né alla sua personalità né alla sussistenza di aspetti di pericolosità sociale, sola atta a giustificare l’imposizione della misura.

Considerato in diritto

1. I ricorsi sono entrambi fondati per le ragioni indicate in motivazione.
2. Ricorso M. .
Tutte le doglianze formulate dal ricorrente riguardo alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza espresso dall’art. 521 cod. proc. pen. risultano pertinenti e fondate.
L’imputato è stato originariamente accusato del reato di abuso d’ufficio aggravato in concorso con S.M. (artt. 61, comma 1, 110, 323 cod. pen.), abuso consumatosi con il redigere unitamente a quest’ultimo un falso esposto anonimo concernente il laboratorio di analisi gestito dalle d.sse R.N. e L.M. (dalla cui gestione lo S. era stato estromesso) in cui si denunziavano presunti illeciti ivi commessi e con l’allegare tale esposto ad una nota a sua firma inoltrata alla Procura della Repubblica di Messina, così cagionando alle parti offese un danno ingiusto di rilevante gravità.
Il Tribunale e la Corte d’appello hanno, invece, ravvisato nella condotta il diverso delitto di calunnia, osservando i giudici sia di primo che di secondo grado che il fatto storico in addebito è rimasto inalterato e sostenendo, altresì, la Corte d’Appello che l’imputato non avrebbe contestato “sotto il profilo processuale la avvenuta riqualificazione del delitto originariamente contestato di cui all’art. 323 cod. pen.”, imperniando le proprie censure “su una mancanza di consapevolezza della falsità delle accuse e comunque sull’inidoneità offensiva dell’azione” (pag. 4 sent. impugnata).
Entrambi gli assunti sono destituiti di fondamento.
Va in primo luogo rilevato che alla fine della pag. 26 ed all’inizio della pag. 27 dell’atto di appello, veniva espressamente dedotto che “la riqualificazione del reato appare una forzatura, tanto che dalle risultanze probatorie emerge chiaro che (…) nel fatto (sic), né la condotta, né l’evento e né la psiche risultano aderenti al fatto così come contestato nei capi d’imputazione e pertanto se ne fa specifica doglianza”.
Ferma restando, perciò, la tempestività dell’eccezione, non può essere per nulla condiviso l’assunto che il fatto storico per cui è stata pronunciata condanna sia rimasto inalterato.
Il delitto di abuso d’ufficio implica, infatti, la compresenza di due elementi costitutivi indefettibili, il primo rappresentato dalla condotta abusiva, che può atteggiarsi in termini vari ed articolati, ferma restando la violazione di un parametro di natura normativa o regolamentare e l’altro dall’evento costituito dallo ingiusto vantaggio patrimoniale procurato a sé o a terzi ovvero dal danno ingiusto arrecato ad altri.
Delitto di evento, dunque, tale conformato dalla radicale modifica apportata dall’art. 1 della legge 16 luglio 1997 n. 234 con il deliberato intento di impedire che l’intervento del giudice penale si trasformasse in una indebita valutazione della discrezionalità spettante alla Pubblica Amministrazione, sindacabile come tale e a determinate condizioni in distinta sede processuale.
Del tutto diversa è evidentemente la struttura del delitto di calunnia (art. 368 cod. pen.), reato di pericolo e non di evento che postula la deliberata attribuzione a taluno di un reato con la consapevolezza della sua innocenza ovvero la simulazione a suo carico di tracce del reato stesso.
Già il mero confronto tra gli elementi costitutivi dei due reati ne evidenzia la differenza strutturale e fa giustizia dell’affermazione dei giudici di merito che il fatto storico in addebito sarebbe rimasto inalterato.
Secondo l’originaria imputazione di abuso d’ufficio, infatti, le parti offese d.sse N. e L. sarebbero state danneggiate mediante denunzia anonima con cui si evidenziavano presunti illeciti – di natura e attribuzione specifica imprecisata stando all’imputazione – asseritamente consumatisi all’interno del laboratorio analisi dalle stesse gestito.
Secondo la sentenza impugnata, invece, l’esposto anonimo non enunciava mere irregolarità ma adombrava “gravi e concreti illeciti penali, soprattutto quanto alla falsità di esami per mancato acquisto dei materiali necessari alle analisi ed alla conseguente truffa in danno del SSN e dei privati” (pag. 4).
È dunque sufficiente evocare tale precisazione, impiegata per definire i contorni della condotta calunniosa, per evidenziare il mutamento sostanziale della accusa, come ricordato, invece, del tutto generica nel riferimento a non meglio indicati illeciti.
Né poi è dato dimenticare l’ulteriore e fondamentale profilo per cui, ai fini della consumazione della calunnia, occorre la specifica e circostanziata attribuzione di un fatto costituente reato a persona identificata o facilmente identificabile di cui sia nota l’innocenza. L’elemento indefettibile del delitto di calunnia consiste, infatti, nell’incolpazione, specifica e circostanziata, di taluno di cui si conosce l’innocenza di un fatto concreto, da cui derivi la possibilità di inizio di un’indagine penale a suo carico da parte dell’autorità (Sez. 6, sent. n. 5574 del 19/03/1998, Ruggeri, Rv. 210652), elemento, invece, del tutto assente nella fattispecie contestata.
Dal punto di vista dell’imputazione originaria di abuso d’ufficio, va pure rilevato che in essa figurava la descrizione di un elemento (il danno ingiusto) che non rappresenta evidentemente elemento costitutivo della calunnia e che di conseguenza ha finito inevitabilmente per eclissarsi dallo scenario della verifica giudiziale.
Sotto il profilo dell’elemento soggettivo, inoltre, difettava in tale imputazione l’indicazione della consapevolezza da parte dell’imputato dell’innocenza delle persone asseritamente accusate, che connota, invece, l’essenza del dolo della calunnia.
Per il complesso delle superiori considerazioni, deve concludersi che stando alla nozione elaborata dalla giurisprudenza di questa Corte di Cassazione riguardo al concetto di identità del fatto, considerato nei suoi tradizionali elementi costitutivi di condotta, evento e nesso causale – concetto unitario tanto se evocato in funzione preclusiva di un secondo giudizio ex art. 649 cod. proc. pen. (è d’uopo il richiamo a Sez. U, sent. n. 34655 del 28/06/2005, P.G. in proc. Donati ed altro, Rv. 231799) quanto ai fini del rispetto del principio di correlazione tra accusa e sentenza di cui all’art. 521, commi 1 e 2 cod. proc. pen. – l’operazione condotta dalla Corte territoriale si pone al di fuori dei canoni interpretativi condivisi.
Se, infatti, (principio di recente riaffermato da Sez. 2, sent. n. 19712 del 06/02/2015, Alota e altri, Rv. 263543) risulta chiaro il grave vizio in cui è incorsa la decisione impugnata, che ha attribuito all’imputato una condotta diversa nei suoi elementi costitutivi di natura fattuale; priva di evento, di cui pure era stata in origine specificamente contestata la verificazione; priva conseguentemente di nesso causale, una volta ritenuto l’evento giuridicamente irrilevante.
Il principio di correlazione tra contestazione e sentenza è, infatti, funzionale alla salvaguardia del diritto di difesa dell’imputato e la sua violazione è ravvisabile “quando il fatto ritenuto nella decisione si trova, rispetto al fatto contestato, in rapporto di eterogeneità ovvero quando il capo d’imputazione non contiene l’indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, né consente di ricavarli in via induttiva” (Sez. 6, sent. n. 10140 del 18/02/2015, Bossi e altro, Rv. 262802).
In maniera ancora più evidente risalta, poi, la violazione di detto principio, ove la sua declinazione passi attraverso la previsione dell’art. 6 § 3 lett. a) della Convenzione EDU alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dello Uomo formatasi sul tema del diritto dell’imputato ad essere informato in maniera dettagliata e in tempo utile, non soltanto dei fatti materiali che gli vengono contestati e sui quali l’accusa si fonda, ma anche della relativa qualificazione giuridica, nel rispetto del diritto ad un equo processo garantito dallo stesso art. 6.
È d’obbligo sul punto il richiamo alla sentenza Corte EDU, II sezione, 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia ed alla giurisprudenza di questa Corte di Cassazione successivamente formatasi riguardo alla medesima vicenda processuale, ancorché principalmente incentrata (con esiti non sempre conformi) sulle modalità atte ad assicurare il contraddittorio in ordine alla diversa definizione giuridica del fatto (Sez. 6, sent. n. 45807 del 12/11/2008, Drassich, Rv. 241754; Sez. 6, sent. n. 36323 del 25/05/2009, Drassich, Rv. 244974; Sez. 2, sent. n. 37413 del 15/05/2013, Drassich, Rv. 256652 e 256653), profilo quest’ultimo rimasto, tuttavia, estraneo al presente giudizio.
Il ricorrente ha, infine, dedotto la violazione anche dell’art. 6 della Direttiva 2012/13/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea del 22 maggio 2012 sul diritto all’informazione nei procedimenti penali, asseritamente contenente previsioni da cui ricavare prescrizioni analoghe alle statuizioni della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dello Uomo; testo normativo di cui invoca, pertanto, l’applicabilità diretta, atteso il grado di sufficiente precisione delle previsioni ivi contenute e il carattere incondizionato degli obblighi in tal senso imposti agli Stati membri dell’Unione.
Ebbene, il richiamo alla Direttiva appare in termini generali assolutamente pertinente, ma occorre rilevare che la sua attuazione nell’ordinamento interno mediante il d.lgs. n. 1 luglio 2014 n. 101 ha comportato essenzialmente l’introduzione di obblighi d’informazione riferiti alle fasi di avvio del procedimento penale (valga per tutte la modifica dell’art. 369-bis cod. proc. pen.), mentre per quanto riguarda il tema della correlazione tra accusa e sentenza nessun dato normativo testuale dirimente pare potersi ricavare dall’art. 6, commi 1 e 3 della Direttiva e soprattutto nessuna considerazione aggiuntiva rispetto a quelle già svolte è dato fare sulla base di dette previsioni.
3. L’intervenuta condanna per fatto diverso impone, dunque, ai sensi dell’art. 521, comma 2 cod. proc. pen. l’annullamento sia della sentenza impugnata sia di quella di primo grado emesse nei confronti di M.G. , con la conseguente trasmissione degli atti al PM competente per l’ulteriore corso del procedimento.
4. Ricorso D.N. .
Anche l’impugnazione proposta da tale ricorrente risulta fondata nei limiti di seguito precisati.
Difetta in primo luogo nella sentenza qualsiasi considerazione riguardo alla doglianza mossa dal ricorrente circa i criteri di determinazione della pena irrogatagli in primo grado, atteso che nella parte dedicata al trattamento sanziona-torio (punto 7, pag. 8) la sua posizione è trattata unicamente in relazione allo accoglimento dell’impugnazione del Procuratore Generale circa la mancata irrogazione della misura di sicurezza.
Difetta di conseguenza anche ogni motivazione sul punto, a dispetto di una sanzione discostatasi in maniera sensibile (due anni e sei mesi di reclusione) dal limite minimo edittale di un anno di reclusione.
Costituisce, infatti, principio più volte affermato dalla giurisprudenza di questa Corte di Cassazione che “in tema di determinazione della pena, quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 cod. pen., quelli ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio> (Sez. 1, sent. n. 24213 del 13/03/2013, Pacchiarotti e altri, Rv. 255825; Sez. 6, sent. n. 35346 del 12/06/2008, Bonarrigo e altri, Rv. 241189; Sez. 6, sent. n. 2925 del 18/11/1999, dep. 2000, Baragiani, Rv. 21733301), con lo speculare corollario secondo cui

P.Q.M.

annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di M.G. nonché la sentenza del Tribunale di Messina datata 28/03/2012 e trasmette gli atti al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Messina per l’ulteriore corso.
Annulla, altresì, la sentenza impugnata nei confronti di D.S.N. limitatamente al trattamento sanzionatorio e all’applicazione della misura di sicurezza e rinvia alla Corte d’Appello di Reggio Calabria per nuovo giudizio su tali punti

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