Cassazione 11

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza 10 marzo 2016, n. 9957

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 25 novembre 2014, la Corte di appello di Napoli riformava parzialmente la sentenza del 5 marzo 2009 del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Sezione distaccata di Marcianise, che aveva dichiarato
V.P. responsabile del delitto di esercizio abusivo della professione di avvocato, riducendo la pena inflitta, avendo dichiarato l’estinzione per prescrizione dei reati commessi sino al 2006, e confermando nel resto.
Era stato accertato in sede di merito che l’imputato aveva esercitato la professione forense in vari procedimenti giudiziari (segnatamente, facendosi nominare difensore e autenticando la sottoscrizione in calce all’atto di nomina in processi penali e civili, depositando in processi penali note difensive e richieste di rinvio dell’udienza per legittimo impedimento o in procedure esecutive istanze di sospensione, atti di reclamo e opposizione al precetto), senza essere iscritto nell’apposito albo.
Con l’appello, non contestata la materialità dei fatti, era stato sostenuto dall’imputato che l’attività svolta, in quanto strumentalmente connessa ad atti tipici della professione forense, non potesse integrare la fattispecie penale di cui all’art. 348 cod. pen., difettando l’esercizio organizzato e continuato della professione, e che in ogni caso era carente l’elemento psicologico, non essendo stato l’imputato informato della reiezione dell’iscrizione all’albo.
L’imputato aveva infine chiesto un più mite trattamento sanzionatorio.
I Giudici dell’appello rigettavano le suddette richieste, rilevando che l’esercizio della professione forense in procedimenti penali e civili era provata per tabulas ed evidenziando, con riferimento al dolo, che era stato accertato, sulla base della documentazione acquisita, che l’imputato avesse avuto precisa contezza della mancata iscrizione all’albo.
La Corte di appello riteneva infine l’imputato non meritevole della concessione delle circostanze ex art. 62-bis cod. pen. e di altri benefici e che la pena inflitta era congrua ed adeguata alla entità degli addebiti e alla personalità dell’imputato.
2. Avverso la suddetta sentenza ricorre per cassazione l’imputato con tre atti, i cui motivi sono di seguito enunciati, secondo le previsioni dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Con il primo atto, presentato dall’avv. B., si denuncia:
– la erronea applicazione dell’art. 348 cod. pen., in quanto l’imputato avrebbe compiuto solo occasionali atti legati alla professione forense, gratuiti e senza organizzazione;
– la carenza ed illogicità della motivazione con riferimento al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche;
– il vizio della motivazione in ordine alla dosimetria della pena;
Con il secondo atto, presentato personalmente dall’imputato, si deduce altresì:
– la violazione dell’art. 348 cod. pen. e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, avendo la Corte di appello ritenuto, erroneamente e con motivazione viziata, la penale responsabilità dell’imputato in presenza di atti occasionali e senza un contesto di professionalità e senza motivare sulla tipicità degli atti in relazione alla professione forense, versandosi in attività stragiudiziale;
– la violazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alle diniego delle circostanze attenuanti generiche;
– la violazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione al complessivo trattamento sanzionatorio, non avendo la Corte adita motivato al riguardo, tenuto conto della entità della pena base inflitta e di quella applicata a titolo di aumento per la continuazione.
Con un terzo atto di impugnazione, presentato personalmente, si denuncia:
– la violazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in relazione all’art. 546 cod. proc. pen.: la motivazione della sentenza impugnata risulterebbe superficiale e non aver fornito risposta alle censure difensive; non avrebbe inoltre accertato la effettiva conoscenza del processo da parte dell’imputato contumace, con conseguente nullità per difetto di notificazione ovvero per notificazione illegittima; l’imputato risulterebbe essere stato assistito da difensore inibito all’esercizio della professione forense; le dichiarazioni delle parti offese non sarebbero state apprezzate con rigore; non riputerebbe sussistente il dolo del reato di calunnia, che è diretto e postula la certezza della convinzione della colpevolezza; erroneamente sarebbe stata ritenuta la recidiva reiterata infraquinquennale;
– la violazione degli artt. 96 e 97 cod. proc. pen., in relazione alla sentenza Corte cost. n. 148 del 2005: sarebbe stato violato il diritto di difesa in quanto era stato nominato come suo difensore un avvocato sospeso e in via di radiazione e non sarebbe stato riconosciuto il rinvio del procedimento;
– l’inefficacia probatoria dell’accertamento eseguito e della sentenza per difetto e nullità delle notifiche: le notificazioni risulterebbero essere state effettuate alla sorella non convivente dell’imputato; vi sarebbe stata confusione tra la configurabilità del reato con l’effettivo destinatario;
– la invalidazione ed annullamento della sentenza per la mancata verifica delle circostanze e le forme di manifestazione del reato;
– la illogicità e contraddittorietà della motivazione perché fondata su un quadro aleatorio e meramente presuntivo, relativamente alla mancata iscrizione all’albo.

Considerato in diritto

1. II ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito illustrate.
2. Manifestamente infondata è la censura relativa alla erronea applicazione dell’art. 348 cod. pen.
Il principio invocato dal ricorrente (Sez. U, n. 11545 del 15/12/2011, Cani, Rv. 251819) è stato invero affermato dalle Sezioni Unite in relazione alla configurabilità del reato di esercizio abusivo della professione in presenza del compimento di atti, che, pur di competenza di una determinata professione, non siano attribuiti ad essa in via esclusiva. In tal caso, il Supremo Consesso ha ritenuto dirimenti le modalità con cui tali atti siano realizzati: le stesse, per continuatività, onerosità e (almeno minimale) organizzazione, devono creare le oggettive apparenze di un’attività professionale svolta da soggetto regolarmente abilitato.
Le Sezioni Unite nella medesima sentenza hanno invece ribadito che concreta esercizio abusivo di una professione, punibile a norma dell’art. 348 cod. pen., il compimento senza titolo, anche se posto in essere occasionalmente e gratuitamente, di atti da ritenere attribuiti in via esclusiva a una determinata professione.
E tale è il caso in esame, nel quale l’imputato ha posto in essere atti tipici – come in premessa indicati- della professione forense, ad essa attribuiti in via esclusiva e quindi riservati a chi legittimamente tale professione può esercitare.
3. Manifestamente infondata, oltre che aspecifica, è la critica all’apparato motivazionale della sentenza in ordine alla prova della penale responsabilità dell’imputato.
Il ricorrente infatti non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, reiterando le medesime censure dei gravame di appello.
Va sul punto evidenziato che in sede di appello l’imputato aveva contestato soltanto due profili sul punto: il compimento di atti tipici della professione forense in modo continuativo e professionale e la sussistenza dell’elemento soggettivo.
Sul primo aspetto, la Corte di appello risponde dei tutto adeguatamente, evidenziando che si era in presenza di atti tipici svolti in procedimenti penali e civili (la affermazione difensiva che si sia trattato di «attività stragiudiziale», oltre che smentita dalla tipologia degli atti compiuti ed acquisiti agli atti, risulta solo labialmente affermata in questa sede).
In ordine alla seconda questione, la sentenza impugnata dimostra in modo ineccepibile l’effettiva e piena conoscenza da parte dell’imputato della mancata iscrizione all’albo, enumerando i numerosi atti nei quali lo stesso imputato, prima del compimento degli atti oggetto di addebito, si era lamentato (anche in apposite denunce penali) della mancata iscrizione.
4. Sul trattamento sanzionatorio, parimenti manifestamente infondate sono le critiche dei ricorrente, considerata tra l’altro la genericità del relativo motivo di appello.
In ordine alle invocate circostanze attenuanti generiche, in appello erano stati infatti richiamati dal ricorrente soltanto i parametri ex art. 133 cod. proc. pen., evidenziando la sua incensuratezza. Sul punto, la Corte adita ha esposto una motivazione congrua e priva di manifesti vizi logici, oltre che rispettosa dei criteri direttivi indicati dal codice penale per giustificarne il diniego, evidenziando la ricorrenza di fattori negativi, quali le modalità della condotta, la negativa personalità dell’imputato, e la mancanza di «concreti» elementi attenuanti.
In ordine alla dosimetria della pena e ai benefici invocati, la sentenza impugnata, tenuto conto anche in tal caso della assoluta genericità dei relativi motivi di appello, risulta parimenti incensurabile in questa sede, in quanto la motivazione sul punto è del tutto rispondente ai criteri di adeguatezza e logicità dei discorso giustificativo e fa corretta applicazione dei criteri direttivi previsti dal codice penale.
5. Del tutto generiche e per alcuni versi non pertinenti (si fa riferimento al dolo della calunnia, alla recidiva infraquinquennale e altre questioni dei tutto estranee al procedimento in esame) sono le critiche versate nell’atto di ricorso depositato il 26 marzo 2015.
Il ricorrente non sostiene la richiesta di annullamento con la illustrazione delle questioni specifiche da sottoporre a verifica, limitandosi a mere enunciazioni di principio (tra le tante, Sez. 3, n. 16851 del 02/03/2010, Cecco, Rv. 246980).
Generica è anche la denuncia di nullità, ad avviso del ricorrente, verificatosi nel corso del giudizio, in ordine alle quali tuttavia non ha fornito alcuna indicazione e documentazione a sostegno del suo assunto.
6. Sulla base di quanto premesso, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
La declaratoria di inammissibilità del ricorso per cassazione, perché contrassegnato da uno dei vizi indicati dalla legge (art. 591, comma, 1, cod.
proc. pen., con eccezione della rinuncia ad un valido atto di impugnazione) preclude ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio, ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., l’estinzione del reato per prescrizione maturata in data successiva alla pronunzia della sentenza di appello (Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164).
Il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento ed al pagamento a favore della Cassa delle ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa di euro 1.500 a titolo di sanzione pecuniaria.
Il ricorrente deve essere altresì condannato alla rifusione delle spese di questa fase in favore della parte civile, liquidate come indicato nel dispositivo.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.500 in favore della Cassa delle ammende, nonché a rifondere alla parte civile, Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli, le spese sostenute nel presente grado di giudizio, che liquida in euro 3.500, oltre spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA.

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