Cassazione 14

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza 11 dicembre 2015, n. 49145

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Reggio Calabria riformava parzialmente la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale della medesima città del 15 ottobre 2012 che, all’esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato T.R. responsabile di vari episodi di millantato di credito e truffa e M.G. responsabile del reato di truffa, dichiarando nei confronti del T. per alcune delle imputazioni non doversi procedere per intervenuta prescrizione (capi da 13 a 15) e, per l’effetto, rideterminando la pena per le restanti imputazioni, e confermando nel resto.
In sede di merito veniva evidenziato che il presente procedimento costituiva il secondo troncone di indagini per fatti analoghi commessi dal T. tra il 2000 e il 2008 e per i quali lo stesso era già stato condannato con sentenza definitiva.
Quanto alle odierne imputazioni, veniva accertato che, come riferito dalle parti offese, il T. agiva con un collaudato modus operandi: agganciato il malcapitato di turno, sempre persona bisognosa e alla ricerca per sé o i propri familiari, di un posto fisso di lavoro, si faceva dare o promettere somme di danaro, spesso i risparmi di una vita o somme per le esigenze indispensabili, con il pretesto, il più delle volte, di dover comprare il favore di pubblici funzionari, talvolta nominativamente indicati, presso il comune di Reggio Calabria, l’Inps, l’Inail, l’USL, consiglieri regionali, la Prefettura, ovvero presso società a partecipazione maggioritaria del Comune di Reggio Calabria, dei quali garantiva l’intervento finalizzato ad assicurare l’assunzione presso pubblici uffici ovvero l’esito positivo di pratiche per il riconoscimento della pensione di invalidità civile.
Alla M. , moglie del T. , era invece stato contestato di aver concorso con quest’ultimo in un episodio di truffa, consistita nel farsi consegnare varie somme di danaro da una persona, prospettando alla vittima di poter così accelerare la pratica di assunzione delle figlie e di ottenere una falsa attestazione del pagamento dei canoni di locazione.
2. Avverso la suddetta sentenza, ricorrono per cassazione personalmente con atti distinti entrambi gli imputati.
T. articola tre motivi di annullamento, e segnatamente:
– la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione all’art. 346 cod. pen. (capi 1, 1-bis, 2, 5, 7, 8, 10, 12, 14, 16, 18, 19-bis, 20, 22, 23): la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ravvisato quali “referenti” delle millanterie soggetti privi della qualifica richiesta dalla norma incriminatrice di soggetti pubblici, non potendosi ritenere tale il presidente del consiglio di amministrazione di società a capitale misto, neppure richiamato nei capi di imputazione; inoltre non avrebbe preso in considerazione, come rilevato nell’appello, che le condotte di millanteria sarebbero intervenute dopo la dazione o la promessa di denaro.
– la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 15, 640 e 346 cod. pen. (capi 3, 4, 6, 9, 11, 13, 15, 17, 19, 20-bis, 21, 24): la sentenza impugnata avrebbe erroneamente ritenuto compatibile il concorso formale tra i reati di truffa con quelli di millantato credito, sulla base della diversità dell’oggetto della tutela penale.
– la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione all’art. 61 n. 7 cod. pen. (capi 3, 4, 6, 9, 11, 13, 15, 21, 24): la sentenza impugnata, ai fini dell’applicazione dell’aggravante de qua, ha erroneamente ritenuto che la rilevanza del danno patrimoniale dovesse essere tratta dalle condizioni personali delle persone offese e valutando tutte le fattispecie complessivamente. In ogni caso difetterebbero nella contestazione gli elementi da cui trarre i presupposti di fatto necessari per l’esercizio del diritto di difesa.
M. ha dedotto tre motivi di annullamento e segnatamente:
– la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 110 e 640 cod. pen.: la sentenza impugnata avrebbe ravvisato il concorso dell’imputata solo per la mera presenza dell’imputata sul luogo del delitto o per una non meglio precisata supposta “cooperazione alla concretizzazione” del disegno criminoso realizzato dal marito, che verrebbero a configurare tuttavia una mera connivenza penalmente irrilevante. Nel caso di specie, il comportamento dell’imputata sarebbe stato meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo causale alla realizzazione del delitto. Inoltre, le dichiarazioni della parte offesa, sarebbero risultate prive di fondamento.
– la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., in relazione agli artt. 61, n. 7 e 133 cod. pen.: la sentenza impugnata, ai fini dell’applicazione dell’aggravante de qua, avrebbe ritenuto che la rilevanza del danno patrimoniale dovesse essere tratta dalle condizioni personali della persona offesa, in assenza di qualunque indagine sulle condizioni economiche della vittima. In ogni caso difetterebbero nella contestazione gli elementi da cui trarre i presupposti di fatto necessari per l’esercizio del diritto di difesa. Inoltre il giudice dell’appello non avrebbe reso congrua motivazione con riferimento alla dosimetria della pena, considerato che questa è stata determinata con discostamento sensibile dal minimo edittale.
– la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen., in relazione all’art. 114 cod. pen.: la sentenza impugnata avrebbe illogicamente escluso l’applicabilità dell’attenuante de qua, definendo decisivo il ruolo assunto dall’imputata, quando lo stesso era consistito nella mera presenza della donna.
In data 15 ottobre 2015, l’avv. Alberto Prassede Grimaldi, difensore d’ufficio degli imputati, ha presentato una memoria illustrativa dei motivi di ricorso, ribadendo le ragioni già espresse nei ricorsi per l’annullamento della sentenza impugnata.

Considerato in diritto

1. I ricorsi di entrambi gli imputati sono inammissibili per le ragioni di seguito illustrate.
2. Il primo motivo di ricorso di T. è manifestamente infondato.
La millanteria che integra il reato di cui all’art. 346 cod. pen. può essere sia esplicita sia implicita (tra tante, Sez. 6, n. 13479 del 17/03/2010, D’Alesio, Rv. 246734). In tale ultimo caso, non è necessario che l’agente vanti espressamente credito presso un pubblico ufficiale o presso un pubblico impiegato che presti un servizio pubblico, essendo sufficiente un comportamento che ingeneri la ragionevole persuasione di essere in grado di potere usare un particolare ascendente sulle decisioni di organi della pubblica amministrazione (Sez. 6, n. 1400 del 16/11/1970 – dep. 19/01/1971, Merola, Rv. 116275).
E ciò in quanto, l’interesse primario tutelato dalla norma di cui all’art. 346 cod. pen. è il prestigio della pubblica amministrazione, che è offeso quando un suo organo, anche se non specificamente indicato, viene fatto apparire come corrotto o corruttibile o quando la sua attività funzionale viene fatta apparire come ispirata a caratteri incompatibili con quelli di imparzialità o correttezza cui la stessa pubblica amministrazione deve ispirarsi ex lege (tra tante, Sez. U, n. 12822 del 21/01/2010, Marcarino, Rv. 246270; Sez. 6, n. 9425 del 17/06/1999, Fatone, Rv. 214125).
Venendo al caso in esame, in cui è contestata tra l’altro esclusivamente o congiuntamente la autonoma ipotesi di cui all’art. 346, comma 2 cod. pen., nella quale il soggetto di cui si prospetta la remunerazione è un ufficiale o impiegato pubblico (l’art. 346 c.p., comma 2, non richiede, a differenza del comma 1, che l’impiegato pubblico svolga anche un servizio pubblico), dall’accertamento compiuto dai giudici di merito emerge che la millanteria, oltre ai casi in cui abbia fatto espresso riferimento a pubblici funzionari nominativamente indicati (capi 12 e 14), aveva ad oggetto influenze su soggetti in grado di consentire l’assunzione in pubblici uffici di coloro che si erano rivolti dall’imputato o la certificazione del pagamento di canoni locatizi, che ragionevolmente non potevano che essere soggetti che rivestivano la qualifica soggettiva prevista dalla norma incriminatrice, anche se non espressamente indicati.
A ciò deve essere aggiunto che i giudici di merito hanno accertato che nel modus operandi dell’imputato la persuasione di poter influire su soggetti pubblici veniva indotta con fittizie telefonate al fantomatico funzionario pubblico, “dominus” della prospettata assunzione, ovvero fissando appuntamenti presso il Palazzo del Comune per un colloquio propedeutico all’assunzione.
Quanto al Presidente del REGES, società mista a partecipazione maggioritaria del Comune di Reggio Calabria concessionaria del servizio tributi, la censura appare del tutto priva di pregio, posto che nel capo di imputazione si fa espresso riferimento alla millanteria riferita ad un funzionario del REGES e che l’attività di riscossione dei tributi va inquadrata nell’ambito dell’esercizio di una pubblica funzione, come esattamente rilevato dai giudici a quibus, con la conseguenza che va riconosciuta la qualifica di pubblico ufficiale a tutti i soggetti pubblici e privati ai quali sono affidati compiti espressione dello svolgimento delle attività di accertamento e riscossione dei tributi comunali.
Quanto alla censura relativa a condotte sussumibili in un post factum, la doglianza appare inammissibile perché formulata in modo assolutamente generico, anche alla luce del fatto che la sentenza impugnata esaminando le singole ipotesi delittuose di cui all’art. 346 cod. pen. ha fornito esauriente risposta al riguardo (pag. 14 in ordine al capo 8).
3. Il secondo motivo di ricorso di T. è del tutto privo di pregio giuridico.
Va ribadito il principio di diritto secondo cui il reato di millantato credito può concorrere formalmente con quello di truffa, stante la diversità dell’oggetto della tutela penale, rispettivamente consistente nel prestigio della P.A. e nella protezione del patrimonio (tra tante, Sez. 6, n. 9470 del 05/11/2009 – dep. 10/03/2010, Sighinolfi, Rv. 246399; Sez. 6, n. 35340 del 23/04/2008, Zocco, Rv. 241246, entrambe relative all’ipotesi di millantato credito di cui al secondo comma dell’art. 346 cod. pen.).
4. Palesemente infondato è anche il terzo motivo proposto da T. .
A prescindere dalla considerazione che, nella quantificazione della pena la circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 7 cod. pen. non risulta menzionata espressamente dal giudice dell’appello in relazione all’aumento per la continuazione per i reati satellite (la pena base è stata infatti calcolata sul reato più grave di millantato credito di cui al capo 1), va evidenziato che in sede di appello l’imputato aveva solo dedotto la carenza della motivazione sulla verifica della situazione di fatto.
Pertanto, dovendo l’esame in questa sede essere limitato soltanto a tale profilo, si osserva che la motivazione offerta dalla sentenza impugnata in ordine alla rilevante gravità del danno cagionato è adeguata – avendo il giudice dell’appello evidenziato le condizioni particolarmente disagiate in cui le singole vittime venivano a trovarsi (soggetti privi di occupazione lavorativa e disponibilità economiche), e rispondente al principio secondo cui la capacità economica del danneggiato costituisce legittimo parametro di valutazione ai fini della configurabilità della circostanza aggravante de qua, cui è possibile ricorrere in via sussidiaria nei casi in cui il danno sia di entità tale da rendere dubbia la sua oggettiva rilevanza (tra tante, Sez. 2, n. 42351 del 24/10/2007, Claris P., Rv. 238761; Sez. 4, n. 5908 del 08/01/2013, Spada, Rv. 255101).
Inammissibili sono le restanti censure in quanto, come sopra precisato, si tratta di questioni non prospettate nei motivi di appello (Sez. 4, n. 10611 del 04/12/2012 – dep. 07/03/2013, Bonaffini, Rv. 256631).
4. Generico e comunque manifestamente infondato è il primo motivo di ricorso di M. .
La ricorrente non si confronta infatti con le ragioni esposte dal giudice di appello a sostegno della decisione impugnata, che sul punto hanno fornito un’adeguata risposta alle deduzioni difensive, senza incorrere in vizi logici o giuridici.
In ogni caso, va ribadito che il concorso nel reato può concretarsi non soltanto attraverso atti che si inseriscono nel processo esecutivo materiale del reato medesimo, ma anche attraverso atteggiamenti e comportamenti che costituiscono, comunque, contributi causali alla realizzazione dell’evento. La presenza fisica allo svolgimento dei fatti si risolve in forma concreta di cooperazione delittuosa, allorché si attui in modo da realizzare un rafforzamento del proposito dell’autore e dell’agevolazione della sua opera (tra tante, Sez. 1, n. 12089 del 11/10/2000, Moffa e altri, Rv. 217347).
La condotta dell’imputata infatti, lungi dal realizzare una mera presenza passiva agli incontri del marito con la vittima, come dedotto nel ricorso, è consistita nella collaborazione prestata a quest’ultimo attraverso la sua amicale presenza nell’avvicinare prima la vittima per instaurare con essa un rapporto di amicizia (l’adescamento della vittima), propedeutico alla realizzazione del progetto criminoso, e poi nel tranquillizzare la vittima negli incontri avuti successivamente, sostenendo così il marito nell’esecuzione di detto progetto.
Ciò premesso, va ritenuto del tutto infondato anche il terzo motivo avanzato da M. in ordine all’attenuante ex art. 114 cod. pen., in quanto, una volta così configurato il contributo prestato dall’imputata nella realizzazione del progetto criminale del marito, non appare affatto illogica, come sostenuto nel ricorso, la decisione della Corte adita di escludere l’applicazione dell’attenuante de qua.
Va ribadito che quest’ultima è configurabile solo quando l’opera prestata da un concorrente sia stata non solo minore rispetto a quella degli altri concorrenti, ma addirittura minima, sì da aver esplicato un’efficacia eziologica del tutto marginale e quasi irrilevante nella produzione dell’evento (tra tante, Sez. 2, n. 18582 del 07/04/2009, Zedda, Rv. 244445; Sez. 1, n. 26031 del 09/05/2013, P.G. e Di Domenico, Rv. 256035).
Del tutto generiche e implicanti valutazioni di merito sono infine le doglianze relative all’attendibilità della parte offesa.
5. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso di M. .
In ordine alla doglianza relativa alla aggravante di cui all’art. 61, n. 7 cod. pen., anche per la ricorrente va osservato che in appello si era censurata la motivazione della sentenza emessa in prime cure solo con riferimento alla omessa verifica delle condizioni per applicare l’aggravante de qua.
Pertanto va ritenuta inammissibile ogni altra censura sul punto che lamenta il difetto di motivazione.
Come già detto sub p.3, va evidenziato che la Corte distrettuale ha fornito puntuale motivazione al riguardo, uniformandosi ai principi di diritto espressi da tempo da questa Corte di legittimità.
Quanto alla dosimetria della pena, la censura è del tutto priva di fondamento, in quanto i Giudici dell’appello hanno adeguatamente esposto le ragioni della decisione di mantenere fermo il trattamento sanzionatorio nei confronti dell’imputata, facendo ricorso ai criteri stabiliti dall’art. 133 cod. pen. per stabilire la gravità del reato, evidenziando in particolare che si trattava di fatti di grave entità in quanto posti in essere nei confronti di soggetti psicologicamente deboli a causa delle loro precarie condizioni economiche.
6. Per le considerazioni su esposte, dunque, i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili, con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali ed al versamento ciascuno alla Cassa delle ammende di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo quantificare nella misura di Euro mille.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma di Euro 1.000,00, in favore della Cassa delle ammende.

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