cassazione

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

SENTENZA 15 settembre 2014, n. 37727

Considerato in fatto

La sentenza della Corte di Appello di Genova del 23 gennaio 2013 oggetto della odierna impugnazione confermava la condanna di P.A. per il “reato continuato” di cui all’articolo 337 codice penale perché con una unica azione, consistente nel minacciare due dipendenti della Polizia di Stato, si opponeva al compimento di un atto del loro ufficio consistente nell’accompagnamento presso i loro uffici per una contestazione di illecito amministrativo.

Uno dei motivi di appello affrontati alla sentenza riguardava la pretesa unicità del reato che la Corte, però, escludeva, sulla scorta di giurisprudenza di legittimità in termini, affermando, invece, che vi fosse pluralità di reati pur a fronte di una unica condotta in quanto “ciascun pubblico ufficiale è investito dell’interesse pubblico al compimento degli atti del suo ufficio”.

Contro questa sentenza ha proposto ricorso il procuratore generale presso la Corte di Appello di Genova, nell’interesse della legge, per sostenere la violazione dell’art. 337 cod. pen. laddove si è ritenuta la duplicità dei reati di resistenza a pubblico ufficiale, unificandoli per continuazione.

Rammentato che nel caso di specie si trattava di due agenti di polizia ferroviaria che compivano unitamente la medesima attività di ufficio e che la condotta del ricorrente era unica ma caratterizzata da espressioni rivolte al plurale (“se non vi levate dai coglioni vi faccio vedere come vi combino… io vi ammazzo”), il PG ritiene di non aderire alla tesi che vuole che, in caso di condotta tenuta nel medesimo contesto, vi siano tanti reati quanti sono i pubblici ufficiali coinvolti dovendosi, invece, considerare che l’art. 337 cod. pen. ha come elemento oggettivo del reato la condotta diretta ad opporsi all’atto di ufficio senza tenero conto del numero di pubblici ufficiali.

Ritenuto in diritto

 Il ricorso è fondato.

Va chiarito che il caso prospettato va, correttamente, inquadrato nell’ambito del concorso formale di reati, ovvero ipotesi in cui la unica condotta comporta la commissione di più reati, ancorché nella pratica la sostanziale identità di disciplina e la difficoltà di distinguere tra unica azione e pluralità di azioni in caso di medesimo contesto spazio-temporale abbia portato a generalizzare il termine “continuazione” sino al ricomprendere tutti gli ambiti di previsione dell’articolo 81 cod. pen., anche quello del primo comma.

Sul punto è ben chiaro il ricorso del procuratore generale che svolge, conseguentemente, argomenti assolutamente condivisibili.

Il reato in contestazione, come risulta in modo inequivoco dalla lettera della norma incriminatrice, è caratterizzato da una condotta che mira alla opposizione attiva ad un atto di ufficio o di servizio.

Dalla semplice lettura risulta già che la più ovvia ed agevole conclusione è che la unicità o pluralità di reati è conseguenza della sostanziale unicità dell’atto compiuto nell’interesse della amministrazione e non del numero di persone che lo pongono in essere. Sul punto sono certamente significativi gli stessi esempi fatta dal procuratore generale, da quello della sassaiola contro i reparti antisommossa a quello, peraltro presente nella casistica che dopo si citerà, della condotta di resistenza nei confronti della pattuglia a bordo di autovettura, commessa mediante fuga con guida pericolosa. Sono ipotesi in cui si apprezza immediatamente che il fatto lesivo dell’interesse della Amministrazione è unico e vi corrisponde il testo della norma.

Va però considerato che effettivamente la giurisprudenza di questa Corte in più occasioni si è espressa nel senso che nella situazione in esame si è in presenza di una pluralità di reati in ragione della pluralità di pubblici ufficiali offesi.

Si tratta di tre decisioni delle quali due, invero, non motivano in modo autonomo ma rinviano alla prima.

Nelle decisioni Sez. 6, n. 38182 del 26/09/2011 – dep. 24/10/2011, Pg in proc. De Marchi, Rv. 250792 e Sez. 6, n. 26173 del 17/05/2012 – dep. 05/07/2012, P.G. in proc. Momodu, Rv. 253111 si legge, in modo sostanzialmente identico “La giurisprudenza di legittimità insegna che la violenza o la minaccia adoperate nel medesimo contesto per opporsi a più pubblici ufficiali non configura un unico reato di resistenza ai sensi dell’art. 337 cod. pen., ma tanti reati di resistenza – che possono essere uniti dal vincolo della continuazione – quanti sono i pubblici ufficiali coinvolti, giacché l’azione delittuosa si risolve in altrettante e distinte offese al libero espletamento dell’attività da parte di ogni pubblico ufficiale investito dalla minaccia o dalla violenza dell’agente (v. da ultimo Sez. 6, n. 35376 del 22.06.2006, Mastroiacovo, rv 234831)”.

Quindi la decisione in cui individuare le ragioni della interpretazione prescelta dalla Corte di Appello nella sentenza impugnata si rinviene nella sentenza Sez. 6, n. 35376 del 22/06/2006 – dep. 23/10/2006, P.G. in proc. Mastroiacovo e altro, Rv. 234831 che, in parte motiva, afferma, per sostenere la tesi qui contrastata “La resistenza, nel medesimo contesto, a più pubblici ufficiali non configura un delitto unico di resistenza, ma altrettanti reati quanti sono i pubblici ufficiali, giacché la resistenza, pur ledendo unitariamente il pubblico interesse alla tutela del normale funzionamento della pubblica funzione, si risolve in altrettante e distinte offese al libero espletamento dell’attività funzionale di ciascun pubblico ufficiale”.

Si tratta di argomenti che sono validamente contrastati dalle valutazione che seguono.

La diversa soluzione trova ragione sia nella stessa struttura del reato, come già accennato, che, comunque, nel modo di individuare, in termini generali, il “dolo del concorso formale” nella ipotesi di concorso formale omogeneo (“più violazioni della medesima disposizione di legge”).

Si può partire proprio da tale profilo dell’elemento psicologico, valutato sotto un punto di vista generale, per comprendere quando la unica azione rappresenti unico reato o concorso formale (omogeneo).

La soluzione scelta dalla giurisprudenza di legittimità che ha trattato il tema espressamente è nel senso di valorizzare il dato del dolo per distinguere la condotta “unica” e quella mirata espressamente a plurime lesioni.

In tal senso questa Corte ha affermato che (Sez. 2, n. 12027 del 23/09/1997 – dep. 23/12/1997, Marrosu, Rv. 210458) “Non può dirsi, infatti, che, nella fattispecie, con la condotta, indiscutibilmente unica, posta in essere dall’imputato, siano state commesse (come previsto, per la parte che qui interessa, dall’art. 81 comma 1 c.p.), “più” violazioni della medesima disposizione di legge, non potendosi la pluralità di violazioni farsi puramente e semplicemente derivare dalla pluralità delle persone offese, ma occorrendo, quando pur si verifichi tale condizione, un quid pluris, consistente nella riconoscibile esistenza di uno specifico atteggiamento psicologico diretto a realizzare l’evento tipico previsto dalla norma incriminatrice nei confronti di ciascuna, distintamente, di dette persone, concetto, questo, che già si ritrova, del resto, nella precedente statuizione di questa Corte, opportunamente richiamata dalla difesa del ricorrente, secondo cui “perché si abbia pluralità di reati, nonostante l’unicità dell’azione, è necessaria una pluralità di processi volitivi, sicché al moltiplicarsi delle lesioni faccia riscontro il moltiplicarsi degli elementi psicologici propri di ciascuna fattispecie incriminatrice e, nell’ipotesi di plurime violazioni della stessa disposizione di legge, che ciascuna di queste sia sorretta dall’elemento soggettivo richiesto per l’integrazione del reato. Ne deriva che se l’azione è unica ed unico è l’atteggiamento psicologico che sorregge il comportamento del colpevole, unico è il reato che egli commette”.

Si tratta di giurisprudenza che conferma quanto già detto dalla sentenza Sez. 1, n. 5015 del 07/12/1987 – dep. 23/04/1988, Gubinelli, Rv. 178225. È tesi che non trova concordi posizioni in dottrina ma, laddove quest’ultima differenzia tra unico reato e pluralità di reati sulla scorta del rilievo costituzionale dell’interesse leso (il caso tipico è quello dell’omicidio plurimo – ovviamente concorso formale – e del furto contemporaneo in danno di più persone – secondo tale impostazione reato unico), giunge, per ipotesi quale quella in esame, sostanzialmente ad identiche conclusioni.

Quindi il caso in oggetto, nel senso indicato dall’ufficio impugnante, trova già una soluzione nel senso che ricorre un unico reato poiché, in base ai dati di fatto rappresentati nella sentenza, è fuori discussione che l’imputato si opponesse all’unico atto tenendo una unica condotta di minaccia verbale senza affatto rappresentarsi la “duplicità” di lesioni dell’interesse dei ppuu coinvolti. Ma, si ripete, alla stessa conclusione si giungerebbe secondo la dottrina che privilegia, nel distinguere tra l’ipotesi del reato unico o del concorso formale omogeneo di reati, non il dato dell’elemento soggettivo ma quello dell’elemento oggettivo, in base al rilievo del tipo di singolo interesse leso.

Va, poi, in risposta al tema più specifico posto dal ricorso, rilevato che ad affermare la unicità del reato, si deve giungere anche in base alla specifica disciplina dell’articolo 337 cod. pen., come già sopra accennato, così superando la diversa giurisprudenza sopra indicata. Questa, come si legge, non valuta espressamente quale sia la condotta tipica della norma ma valorizza la pluralità di pubblici ufficiali offesi; argomento, invero, già poco convincente in quanto il bene espressamente tutelato dall’art. 337 cod. pen. è rappresentato dalla regolare attività della Amministrazione laddove l’offesa al pubblico ufficiale rappresenta un “danno collaterale”.

In tale senso è, si ripete, la formulazione letterale della disposizione laddove prevede espressamente che l’obiettivo della condotta criminosa è l’opposizione all’atto piuttosto che la violenza o minaccia nei confronti del singolo in quanto tale. In questo, come in analoghi casi, il reo si è opposto ad un atto della Amministrazione ed il “numero” di reati non può quindi farsi discendere dal numero di persone che hanno posto in essere tale atto. Se fosse vera la diversa tesi avremmo più reati in un caso in cui l’offesa al bene primario è indiscutibilmente unica.

Peraltro, poiché il reato, laddove prevede la condotta di minaccia o violenza, assorbe solo i reati di minacce semplici e percosse, la tutela rispetto alle più gravi offese ai diritti individuali è garantita dalle norme che tutelano espressamente l’integrità fisica. A fronte, ad esempio, dell’incidente automobilistico provocato dalla fuga “violenta”, vi sarà una singola lesione dell’interesse della Amministrazione, e quindi una violazione dell’art. 337 cod. pen., e tanti casi di, ad es., lesioni quanti sono i soggetti che ne riportano a causa dell’incidente.

A conferma della lettura qui prescelta dell’art. 337 cod. pen. è significativo il raffronto con la previsione dell’art. 338 cod. pen. laddove si prevede la violenza o minaccia ad un “corpo” politico, amministrativo o giudiziario. Si tratta, evidentemente, di un reato più grave in quanto le medesime condotte corrispondenti ai reati di cui agli artt. 336 e 337 cod. pen. sono puniti in modo più grave. E la ragione è ovvia, la scelta normativa consegue al maggior rilievo di una attività posta in essere da un organo pubblico collettivo qualificabile quale “corpo”.

Tale previsione rende chiaro che ciò che incide incrementando la gravità del fatto “unico” è il trattarsi di una attività pubblica con una data caratteristica e non certamente il numero di persone offese – il termine “corpo” esclude la applicabilità, ad es, ad un reparto antisommossa i cui componenti sono tipicamente in maggior numero. Se si ragionasse diversamente nell’interpretare l’art. 337 cod. pen., atteso il meccanismo di cumulo giuridico della pena ex art. 81 cod. pen., si applicherebbe una pena maggiore al soggetto che rivolgesse minacce come nel caso in esame, laddove accompagnato da una pattuglia di quattro persone, rispetto al soggetto che volesse, ad esempio, impedire al collegio di sette magistrati di riunirsi per una udienza delle sezioni unite. È certamente la previsione dell’art. 338 cod. pen. non ha la funzione di mitigare la sanzione per le date ipotesi.

Lo stesso esame di casi analoghi nella giurisprudenza di questa Corte dimostra che, in realtà, comunemente si contesta il reato ex art. 337 cod. pen. quale reato unico laddove l’azione sia unica e più d’uno siano i pubblici ufficiali; sono casi in cui il problema non è stato posto ancorché, trattandosi di profilo di qualificazione giuridica, rilevabile di ufficio.

In tale senso è Sez. 2, n. 46618 del 20/11/2009 – dep. 03/12/2009, Corrado e altri, Rv. 245420 che, nell’affermare il principio Integra il reato di resistenza a pubblico ufficiale la condotta di colui che, per sottrarsi alle forze di polizia, non si limiti alla fuga in macchina ma proceda ad una serie di manovre finalizzate ad impedire l’inseguimento, così ostacolando concretamente l’esercizio della funzione pubblica e inducendo nell’inseguitore una percezione di pericolo per la propria incolumità” tratta proprio un caso in cui era contestato quale reato unico il “concorso in resistenza a pubblico ufficiale dal quale era derivata, come evento non voluto, la morte di un carabiniere a seguito di incidente che aveva coinvolto l’auto militare su cui questi viaggiava, impegnata – per contrastarne la fuga – nell’inseguimento del mezzo sub a) e di quello sub d)”.

Anche la più recente Sez. F, n. 40 del 10/09/2013 – dep. 02/01/2014, E., Rv. 257915 nell’affermare “In tema di resistenza a pubblico ufficiale, integra l’elemento materiale della violenza la condotta del soggetto che si dia alla fuga, alla guida di una autovettura, non limitandosi a cercare di sottrarsi all’inseguimento, ma ponendo deliberatamente in pericolo, con una condotta di guida obiettivamente pericolosa, l’incolumità personale degli agenti inseguitori o degli altri utenti della strada” esamina, in concreto, la fuga da una pattuglia di più persone, ritenuta ipotesi di reato unico.

Una decisione diversa si legge, invece, nel distinto caso in cui i pubblici ufficiali tengano condotte in sé separate; ma, in questo caso, si parla più correttamente di continuazione. Sez. 6, Sentenza n. 3546 del 07/04/1988 in tema di resistenza a un pubblico ufficiale, di cui all’art. 337 cod. pen., qualora la funzione pubblica sia esercitata da una pluralità di pubblici ufficiali attraverso azioni che si integrano a vicenda, la pluralità delle contrapposte reazioni – minacciose o violente – con cui l’autore della resistenza intenda bloccare le predette complesse funzioni rientra nel paradigma del reato continuato, (nella specie, relativa a ritenuta sussistenza della continuazione, due carabinieri avevano aperto il fuoco incrociato da due contrapposte posizioni, mentre l’imputato esplodeva i suoi colpi indirizzandoli verso le due differenti direzioni allo scopo di bloccare entrambi i militari per potersi sottrarre all’arresto)”.

Va, infine, considerato come si è affermata, invece, la pluralità di reati in occasioni in cui l’azione, pur unica, è però diretta a provocare una pluralità di lesioni del bene “principale”. È questo il caso dell’oltraggio a pubblico ufficiale (Nel caso di offesa rivolta a più pubblici ufficiali l’azione unica è in realtà plurima sotto l’aspetto della sua idoneità offensiva e quindi equivale, anche sotto il profilo oggettivo, alla pronuncia reiterata della stessa frase alle singole persone presenti Sez. 6, Sentenza n. 902 del 31/10/1997 Ud. (dep. 23/01/1998) Rv. 210349).

Difatti, in questo caso, l’azione tipica è quella di offendere “l’onore ed il prestigio di un pubblico ufficiale” e non è, allora, ipotesi comparabile a quella dell’art. 337 cod. pen. o, in altro ambito, “La condotta di omessa somministrazione dei mezzi di sussistenza in danno di più soggetti conviventi nello stesso nucleo familiare non configura un unico reato, bensì una pluralità di reati in concorso formale o, ricorrendone i presupposti, in continuazione tra loro. (Sez. 6, n. 2736 del 13/11/2008 – dep. 21/01/2009, L, Rv. 242856)”; anche qui l’azione unica integra più fatti tipici (la lesione del diritto di ciascun avente diritto).

Va, in conclusione, affermato che “costituisce unico reato, e non pluralità di reati, a norma dell’art. 337 cod. pen., la ipotesi in cui la violenza o minaccia (che concreta la resistenza) sia diretta contro più pubblici ufficiali o contro più incaricati di pubblici servizi in un contesto di unicità di azione”.

Tale regola, ovviamente, non impedisce che possano esservi ipotesi in cui, pur se la parte abbia agito in unico contesto, l’avere avuto di mira i pubblici ufficiali in quanto persone comporta la realizzazione di una pluralità di violazioni dell’art. 337 cod. pen.. Ne è un esempio il caso trattato nella decisione Sez. 6, Sentenza n. 30846 del 2014 ud. 9/5/14 in cui il reo, detenuto, aveva aggredito gli agenti di polizia penitenziaria in ragione dei rapporti personali tesi creatisi nel contesto della detenzione. In quel caso la parte intendeva effettivamente aggredire i due singoli agenti in quanto persone e vi era solo dolo indiretto rispetto al carattere di atto di ufficio della azione delle vittime. In un tale caso la duplicità di reati in concorso formale è, evidentemente, una conseguenza del particolare caso concreto.

L’applicazione della regola sopra affermata comporta che la sentenza impugnata va riformata nel senso di ritenere unico il reato, potendo procedere questa stessa Corte alla rideterminazione della pena escludendo l’aumento a titolo di continuazione/concorso formale.

P.Q.M.

Ritenuta l’unicità del reato, annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla pena inflitta che ridetermina in sei mesi di reclusione.

 

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