Cassazione 6

Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza 19 novembre 2014, n. 47897

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 9 maggio 2013, la Corte d’appello di Caltanissetta ha confermato la sentenza dell’11 novembre 2010, con la quale il Tribunale di Gela condannava P.C.O. alla pena di mesi sei di reclusione, in relazione al reato di cui all’art. 385 cod. pen., per essere evaso dagli arresti domiciliari il 14 ottobre 2008, rilevato che il reato risulta integrato sotto il profilo oggettivo e soggettivo, alla luce delle evidenze della relazione di servizio e delle spontanee dichiarazioni rese dall’imputato.
2. Avverso il provvedimento ha presentato ricorso l’Avv. Danilo Tipo, difensore di fiducia di P.C.O. , chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi.
2.1. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. b), cod. proc. pen., per avere la Corte d’appello ritenuto integrato il reato di evasione sebbene P. , trovato sull’uscio della propria abitazione, abbia in effetti posto in essere soltanto una violazione alle prescrizioni della misura, non equiparabile all’allontanamento.
2.2. Violazione dell’art. 606, comma 1 lett. c), cod. proc. pen., per avere la Corte non adeguatamente motivato l’insussistenza dei presupposti per accogliere la richiesta di sentire i testi oculari ai sensi dell’art. 507 cod. proc. pen..
3. In udienza, il Procuratore generale ha chiesto che il ricorso sia rigettato.

Considerato in diritto

1. Il ricorso non è fondato e va di conseguenza rigettato.
1.1. Con riguardo al primo motivo di doglianza – con il quale si è eccepita l’insussistenza dei presupposti oggettivi del reato di evasione -, giova premettere come, in effetti, nel descrivere la condotta oggetto del reato di evasione, l’inquirente abbia valorizzato il fatto di essere stato P. colto a conversare con altri (con ciò violando la prescrizione che gli impediva di avere contatti con terze persone) e lasciato in ombra il dato – l’unico veramente rilevante – che tale azione veniva compiuta al di fuori delle mura domestiche.
Nonostante ciò, il ricorrente si è difeso nel processo di primo e secondo grado confrontandosi con la contestazione di evasione intesa in senso proprio -inequivocabilmente elevatagli, giusta l’indicazione della norma ex art. 385, comma 1 e 3, cod. pen. -, laddove ha svolto le proprie difese in merito allo specifico aspetto dell’allontanamento dal domicilio, che appunto qualifica il reato in parola, manifestando di non avere alcun dubbio in merito alla portata dell’accusa mossa nei suoi confronti.
1.2. Fatta questa debita premessa, l’assunto difensivo non pare condivisibile laddove il fatto – del tutto pacifico e, nella sostanza, ammesso dallo stesso ricorrente – che egli sia uscito dalla porta di casa e quindi dalle mura domestiche integra certamente un allontanamento dal luogo di restrizione, con ciò sostanziando il reato di evasione.
Come questa Corte ha avuto modo di affermare in tema di evasione dagli arresti domiciliari in una fattispecie in tutto sovrapponibile a quella di specie, agli effetti dell’art. 385 cod. pen. deve intendersi per abitazione il luogo in cui la persona conduce la propria vita domestica e privata con esclusione di ogni altra appartenenza (aree condominiali, dipendenze, giardini, cortili e spazi simili) che non sia di stretta pertinenza dell’abitazione e non ne costituisca parte integrante; e ciò al fine di agevolare i controlli di polizia sulla reperibilità dell’imputato, che devono avere il carattere della prontezza e della non alcatorietà (fattispecie in cui l’imputato, all’atto del controllo, si trovava in uno spazio condominiale esterno alla sua abitazione e proveniva da un altro appartamento) (Cass. Sez. 6, n. 3212 del 18/12/2007, P.M. in proc. Perrone, Rv. 238413). Ancora, questo giudice di legittimità ha chiarito che il concetto di abitazione comprende sia il luogo in cui il soggetto conduce la propria vita domestica che le sue pertinenze esclusive (Cass. Sez. 1, n. 17962 del 30/03/2004, Maritan, Rv. 228292).
Se ne inferisce che, nel concetto di domicilio, si devono comprendere i terrazzi ed i giardini di pertinenza esclusiva dell’abitazione, ma non gli ambienti condominiali, quali i pianerottoli, le scale ed i cortili interni, in quanto di libero accesso ed in uso da parte di altri, come i condomini e coloro i quali siano legittimati da essi ad accedervi. L’allontanamento dal luogo di restrizione (in regime di arresti domiciliari così come di detenzione domiciliare) può dunque essere legittimamente sanzionato solo ed in quanto il soggetto si allontani dall’abitazione propriamente detta, ovvero dai luoghi che, in quanto in uso esclusivo delle persone che dispongano dell’alloggio, debbano considerarsi a tutti gli effetti parti di essa, in quanto – giusta il delineato carattere di esclusività -precluse all’accesso dei terzi estranei (salvo, ovviamente, il consenso dell’avente diritto). E ciò a prescindere da considerazioni – all’evidenza extragiuridiche – sulle possibili, e talvolta sensibili, disparità di superficie a disposizione dei diversi soggetti in regime domiciliare, in considerazione della differente metratura dell’alloggio e delle relative pertinenze a disposizione.
1.3. Di tali principi ha fatto corretta applicazione la Corte territoriale laddove ha ritenuto integrato il reato nel caso di specie, nel quale il ricorrente veniva colto dalle forze dell’ordine deputate ai controlli fuori dall’uscio di casa, in particolare – per sua stessa ammissione -, intento a conversare con altre persone sulle scale condominiali, dunque in uno spazio certamente posto al di fuori delle mura domestiche, non qualificabile come pertinenza esclusiva dell’abitazione. Il giudice di secondo grado ha evidenziato come il reato sia integrato sotto il profilo oggettivo e soggettivo, alla luce delle chiare evidenze della relazione di servizio (da cui emerge che P. veniva visto parlare davanti all’ingresso della propria abitazione) nonché delle spontanee dichiarazioni rese dall’imputato (il quale ha ammesso di essersi trovato al momento dell’arrivo dei verbalizzanti nelle scale per fare le pulizie e di essersi intrattenuto a parlare con altro soggetto che si trovava ivi a passare).
2. Al pari infondato è il terzo motivo di ricorso, con il quale il ricorrente ha dedotto la violazione di legge processuale in relazione al rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ex art. 507 cod. proc. pen..
Secondo il consolidato insegnamento di questa Corte, la mancata assunzione di una prova decisiva – quale motivo di impugnazione per cassazione – può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione a norma dell’art. 495, comma 2, cod. proc. pen., sicché il motivo non potrà essere validamente invocato nel caso in cui il mezzo di prova sia stato sollecitato dalla parte attraverso l’invito al giudice di merito ad avvalersi dei poteri discrezionali di integrazione probatoria di cui all’art. 507 cod. proc. pen. e da questi sia stato ritenuto non necessario ai fini della decisione (ex plurimis Cass. Sez. 2, n. 9763 del 06/02/2013, Pg in proc. Muraca e altri, Rv. 254974).
3. Dal rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *