SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

Sentenza  2 aprile 2012, n. 12310

Fatto e diritto

1. La Corte di Appello di Catanzaro con l’indicata sentenza del 19.5.2011 ha confermato la decisione, impugnata dall’imputato, emessa il 22.9.2008 dal Tribunale di Castrovillari, con la quale all’esito di giudizio ordinario la cittadina russa E.B. è stata riconosciuta colpevole del reato di abbandono ingiustificato del domicilio coniugale (art. 570 co. 1 c.p.), perché il 31.3.2005 si allontanava dall’abitazione familiare senza farvi più ritorno, così sottraendosi agli obblighi di assistenza morale nei confronti del marito L.V. con cui aveva contratto matrimonio il (omissis). Responsabilità sanzionata con la condanna, previa concessione di attenuanti generiche, alla pena condizionalmente sospesa di due mesi di reclusione.

La Corte territoriale, disattendendo le doglianze espresse con l’atto di appello dell’imputata, ha condiviso la ricostruzione e la valutazione della vicenda processuale sviluppate dalla decisione di primo grado. Alla luce delle dichiarazioni del coniuge V.L., costituitosi parte civile, risultano accertate, secondo la Corte di Appello, sia l’abbandono della casa coniugale da parte dell’imputata, riferito in denuncia e confermato in dibattimento dal V. , sia l’assenza di qualunque ragionevole spiegazione di tale condotto. Condotto da ricondursi alla deliberata volontà della B. e non a supposte cause di forza maggiore o a fatti costrittivi subiti dalla donna, atteso che – come si evince dalle relazioni delle indagini di p.g. acquisite in atti sull’accordo delle parti – l’imputata è stata identificata a (omissis) presso la Questura, dove si era recata per rinnovare il suo permesso di soggiorno lavorativo, svolgendo attività di domestica alle dipendenze di un’anziana signora romana (come confermato in quell’occasione dalla figlia della signora, che accompagnava la B. per l’incombenza burocratica).

2. Avverso l’illustrata sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputata, deducendo violazione dell’art. 192 c.p.p. e carenza di motivazione con riferimento alla mancanza di idonee prove della sussistenza del reato contestato alla B. segnatamente sotto il profilo dell’elemento soggettivo. In vero sono rimaste oscure le ragioni per cui la donna si è allontanata dalla casa coniugale, non emergendo la reale ingiustificabilità di tale condotta, desunta dalle sole dichiarazioni del marito, persona offesa costituitasi parte civile. Dichiarazioni che la sentenza di appello, al pari del giudice di primo grado, gratifica di piena credibilità, senza tuttavia fornire indicazioni sui riscontri acquisiti a sostegno dell’assunto accusatorio e senza fornire adeguata risposta ai rilievi formulati con il gravame.

3. Il ricorso è fondato.

3.1. Con argomento solo in apparenza lineare i giudici di secondo grado, sulla scia della confermata decisione del Tribunale, hanno ritenuto che le dichiarazioni del denunciante marito dell’imputata, asseveranti la mancanza di ragionevoli spiegazioni dell’abbandono del “tetto” coniugale da parte della consorte, sono state riscontrate, sotto il profilo della volontarietà del contegno antigiuridico della donna, dalle emergenze delle indagini di polizia giudiziaria. Indagini che hanno accertato il trasferimento o comunque la presenza della B. a Roma per svolgervi attività lavorativa e, quindi, la sottostante non giustificata volontarietà del suo abbandono del coniuge e della dimora coniugale (omissis).

Ma tale motivazione è in tutta evidenza contraddittoria e tautologica, poiché da un lato si inserisce in un quadro di totale carenza di accertamenti coevi al momento dell’abbandono della dimora da parte dell’imputata (non risultando effettuato, alla luce della motivazione delle due sentenze contumaciali di merito, alcun genere di verifica o controllo per ricomporre sul piano fenomenico il contegno della donna, benché lo stesso marito abbia – ad esempio – narrato che la B. sarebbe uscita, senza ritornare più a casa, per incontrarsi con alcune amiche ucraine residenti in xxxxxxxx) e poiché, d’altro lato, nulla sulle reali cause dell’allontanamento è dato inferire dalla sola evenienza per cui la donna, ad un anno e mezzo di distanza dal denunciato episodio, si sarebbe trovata a Roma, ivi svolgendo attività lavorativa come badante.

3.2. Ora è agevole osservare che, come già chiarito da questa Corte regolatrice, il reato di cui all’art. 570 co. 1 c.p., nella forma dell’abbandono del domicilio domestico, non può ritenersi configurabile per il solo fatto storico dell’avvenuto allontanamento di uno dei coniugi dalla casa coniugale (v.: Cass. Sez. 6, 14.7.1989 n. 13724, Chianta, rv. 182278 Cass. Sez. 6, 12.3.1999 n. 11064, Innamorato, rv. 214330). Posto che la fattispecie criminosa si perfeziona soltanto se e quando il contegno del soggetto agente si traduca in un’effettiva sottrazione agli obblighi di assistenza materiale e morale nei confronti del coniuge “abbandonato” (del che, nel caso oggetto di ricorso, nessuna prova è individuata né dall’impugnata sentenza di appello, né da quella di primo grado), occorre ribadire che – alla luce della normativa regolante i rapporti di famiglia e della stessa evoluzione del costume sociale e relazionale – la qualità di coniuge non è più uno stato permanente, ma una condizione modificabile per la volontà, anche di uno solo, di rompere o sospendere il vincolo matrimoniale. Volontà la cui autonoma manifestazione, pur se non perfezionata nelle specifiche forme previste per la separazione o lo scioglimento del vincolo coniugale, può essere idonea ad interrompere senza colpa e senza effetti penalmente rilevanti taluni obblighi, tra i quali quello della coabitazione. La logica ulteriore conseguenza, ignorata dalla sentenza impugnata, è che la condotta tipica di abbandono del domicilio domestico è integrata soltanto se l’allontanamento risulti privo di una giusta causa, connotandosi di reale disvalore dal punto di vista etico e sociale (Cass. Sez. 6, 14.10.2004 n. 44614, Romeo, rv. 230523).

Nella vicenda per cui è processo il Tribunale prima e la Corte distrettuale poi si sono limitati ad accertare il mero dato oggettivo dell’allontanamento della B. dal domicilio familiare, senza alcuna indispensabile verifica dell’esistenza di ragioni idonee a giustificare tale condotta materiale, quali – in ipotesi – l’impossibilità, intollerabilità o estrema penosità della convivenza.

È evidente che il compito del giudicante non può esaurirsi nell’accertamento del solo fatto storico dell’abbandono, ma include l’ineludibile ricostruzione del contesto concreto in cui esso si è verificato. Ricostruzione in difetto della quale rimane inesplorata la necessaria verifica dell’elemento soggettivo del reato. Nell’ambito delle lacunose indagini della pubblica accusa (nulla è dato sapere sul rapporto coniugale della parte civile e dell’imputata, né se vi siano figli della coppia o prossimi congiunti dei coniugi) i giudici di merito, neppure ponendosi un problema di più approfondita conoscenza (con gli strumenti di cui agli artt. 507 e 603 c.p.p.), si sono limitati ad osservare che l’imputata ebbe a lasciare la dimora familiare. Su tale esclusivo dato si è ravvisato il reato contestato alla B., giudicandosi appagante la verosimile inesistenza di cause di forza maggiore sottese a tale allontanamento domiciliare per la sola emersa presenza, ad oltre un anno di distanza dal fatto, dell’imputata a xxxx per motivi di lavoro. Né, diversamente da quanto paiono supporre le due conformi decisioni di merito, può farsi carico all’imputato di offrire dimostrazione delle ragioni della propria scelta, essendo dovere del p.m. prima e del giudice poi l’accertamento completo degli elementi costitutivi, materiale e soggettivo, della fattispecie criminosa.

Se ne inferisce allora che, nel vuoto probatorio (non altrimenti colmabile a distanza di anni dal fatto) caratterizzante la vicenda processuale, la sentenza di appello impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto criminoso attribuito alla ricorrente non costituisce reato.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato.

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