La massima

Il delitto di calunnia non può dirsi sussistente qualora sia assente la consapevolezza del soggetto agente di accusare un innocente (nel caso di specie, un avvocato penalista aveva accusato un magistrato per il reato di estorsione, atteso che quest’ultimo, avvalendosi di un ex agente di polizia giudiziaria quale mediatore, formulava una richiesta di versamento di una somma di denaro al fine di evitare l’attivazione di vicende giudiziarie nei confronti dell’avvocato stesso. Tuttavia, i toni utilizzati e le parole espresse hanno contribuito in modo determinante ad ingenerare nell’imputato il convincimento che quella che gli veniva apparentemente prospettata come una bonaria soluzione transattiva di una ipotetica lite giudiziaria, fosse – in realtà – una vera e propria richiesta di denaro, proveniente dall’interessato – il magistrato – per il tramite di un terzo soggetto che per anni era stato impiegato nella sua segreteria).

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI PENALE

SENTENZA 21 marzo 2012, n.10997


Ritenuto in fatto e considerato in diritto

 

La parte civile A..S. , magistrato del P.M., ed il Procuratore della Repubblica di Napoli ricorrono avverso la sentenza ex art. 425 cod. proc. pen. 12 aprile 2011 del G.U.P. del Tribunale di Napoli (che ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di C.V. avvocato penalista, nato il (omissis) , per il reato di calunnia, perché il fatto non costituisce reato), deducendo vizi e violazioni nella motivazione nella decisione impugnata nei termini critici che verranno ora riassunti e valutati.

1.) l’accusa di calunnia e la sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 C.P.P..

C.V. (avvocato penalista del foro di (omissis) ) è accusato del delitto previsto e punito dall’art. 81. 368 cp., perché, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, con denuncia presentata alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli e con atto di opposizione alla richiesta di archiviazione formulata dalla Procura della repubblica di Napoli nell’ambito del procedimento XXXXXXXX, falsamente accusava, sapendolo innocente, S.A. (sostituto procuratore delle Repubblica di (omissis) ) e Co.Fr. , già agente di Polizia giudiziaria in servizio presso la Segreteria della Procura di (omissis) , e successivamente cliente dell’avv. C. per vicende in tema di criminalità organizzata) del delitto di tentata estorsione, in particolare affermando che il S. avesse formulato la richiesta del versamento della somma di Euro 50.000, con modalità riconducibili a quelle descritte dall’art. 7 legge 203/1991, prospettando l’attivazione di azioni giudiziarie in danno del C. (atto di opposizione del 22 gennaio 2009), ed avvalendosi quale mediatore del Co. , soggetto condannato per associazione per delinquere di stampo mafioso (denuncia del 13.10.2008 in Napoli, ed atto di opposizione del 22.1.2009).

La gravata sentenza, dopo aver più volte evidenziato (pag. 4 e 5,) il contesto di ‘esasperata conflittualità’ che ha visto protagonisti due operatori del diritto, del medesimo circondario, pur animati ‘da assoluta buona fede circa il convincimento dell’altrui responsabilità penale, civile o disciplinare’, ha spiegato che tale contrasto tra esponenti della magistratura e dell’avvocatura si era acuito per l’intervento di terzi, che si erano intromessi ‘alimentando ancor di più gli equivoci, i fraintendimenti e le reciproche diffidenze’.

In tale cornice espositiva il provvedimento, a seguito di un’analisi delle emergenze e delle scansioni processuali della vicenda, ha concluso sostenendo la sussistenza ‘per tabulas’, dell’assenza della consapevolezza, da parte dell’imputato avv. C. dell’innocenza del magistrato S. e del Co. , in ordine alle accuse loro rivolte nella denuncia del 13.10.2008 e nel successivo atto di opposizione all’archiviazione, situazione, questa che ha imposto, giusta le testuali espressioni che precedono il dispositivo, ‘di procedere, già in questa sede, al proscioglimento dell’imputato poiché il fatto a lui contestato non risulta sorretto dall’elemento soggettivo del delitto di calunnia e, pertanto, non costituisce reato’.

2.) I motivi di impugnazione e le ragioni della decisione della Corte.

Vi sono in atti due ricorsi: il primo del Procuratore della Repubblica di Napoli ed il secondo della costituita parte civile A..S. .

Con un unico motivo di impugnazione la parte pubblica prospetta violazione di legge e vizio di motivazione per contraddittorietà della stessa, in ordine alla correttezza del giudizio prognostico, tenuto conto che, tra l’altro, la sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 C.P.P. ha testualmente definito ‘assurda’ ed ‘inverosimile’ la condotta prospettata ed attribuita alla consapevolezza del magistrato, il quale ha agito per il tramite del Co. .

La parte civile lamenta, negli stessi termini del Procuratore della Repubblica, violazione di legge e vizio di motivazione, sostenendo che la sentenza di proscioglimento del G.U.P., erroneamente applicando le norme dettate in tema di natura e configurabilità del dolo, non ha minimamente tenuto in considerazione, tra l’altro gli indicatori di responsabilità emergenti agli atti, così ampliando, oltre ogni ragionevolezza, la valenza delle dichiarazioni dell’imputato che, solo apparentemente corroborate dalle dichiarazioni (inconferenti) dei testi ‘dell’ultima ora’ e suoi amici fidati, ha aperto una illegittima falla nella configurabilità del delitto di calunnia in danno del dr. S. .

Il difensore dell’imputato, con memoria ritualmente depositata, prospetta l’inammissibilità del ricorso del Procuratore della Repubblica, in ogni caso privo di fondamento, in un contesto di dati che rende del tutto inutile la fase dibattimentale.

Nella stessa memoria è pure sostenuta l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso della parte civile.

I gravami non superano la soglia dell’ammissibilità.

Premesso che il giudice dell’udienza preliminare ha il potere di pronunziare la sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 C.P.P. in tutti quei casi nei quali non esista una prevedibile possibilità che il dibattimento possa approdare ad una soluzione conforme alla prospettazione accusatoria, va tuttavia precisato:

I) che la sentenza di non luogo a procedere esprime una valutazione prognostica negativa circa l’eventuale condanna in giudizio e non un convincimento intorno ad un accertamento svolto ai fini di una possibile condanna (Cass. pen. sez. 2, 28743/2010 Rv. 247860);

II) che soltanto una prognosi di inutilità del dibattimento relativa alla evoluzione, in senso favorevole all’accusa, del materiale probatorio può condurre ad una sentenza di non luogo a procedere (Cass. pen. sez. 5, 22864/2009 Rv. 244202);

III) che il controllo della Corte di cassazione sul vizio di motivazione della sentenza di non luogo a procedere deve essere riferito alla prognosi sull’eventuale accertamento di responsabilità alla stregua dei risultati provvisoriamente offerti dagli atti di indagine, nonché delle prove irripetibili o assunte in incidente probatorio (Cass. pen. sez. 5, 10811/2010 Rv. 246366).

Orbene, venendo al caso di specie, ritiene la Corte, la correttezza dell’assunto del G.U.P. circa la prognosi di inutilità del dibattimento relativa alla evoluzione, in senso favorevole all’accusa, del materiale probatorio in atti.

Il dato di fondo, utilizzato nella decisione impugnata è la prova, ritenuta manifesta (‘per tabulas’), dell’assente consapevolezza in capo all’imputato dell’innocenza del dr. S. e del Co. , desunta da un complesso articolato di valutazioni, che accompagnano la sequenza cronologica delle condotte, le quali giustificano, ragionevolmente, l’Inutilità dell’ulteriore fase dibattimentale, avuto preciso riguardo:

a) agli esiti della integrazione probatoria, disposta dal G.U.P. ex art. 422 cod. proc. pen., mediante l’audizione dei testi L.F. e D.P.S. , i quali hanno testimoniato sulla telefonata ‘imprevista’ del Co. che avvertiva il C. della sua imminente, e poi realizzata, visita nello studio del professionista;

b) alla percepita reazione dei testi circa lo stato emotivo dell’avvocato, il quale riferì loro, nell’immediatezza della detta visita, di aver ricevuto una richiesta di denaro da parte di un magistrato;

c) alla conversazione (registrata dal C. ) tra il C. ed il Co. nel corso della quale l’interlocutore dell’odierno imputato informa l’avvocato della imminenza dell’apertura delle indagini a suo carico, informandolo di vicende che, in quel momento, il professionista non avrebbe potuto apprendere altrimenti, nonché della possibilità di evitare un nuovo procedimento penale, a condizione di versare al magistrato la somma di 53 mila Euro;

d) alla valorizzazione di quella parte della conversazione nella quale il Co. , riferendosi al dr. S. , ha dichiarato: “ha detto: a me, se mi danno i soldi, io non voglio sapere chi me li da i soldi… se mi danno i soldi io levo da mezzo la parte civile, non mi costituisco.. tra l’appello questo e quest’altro il reato finisce in prescrizione’;

e) alla conseguente logica considerazione che, avendo il Co. informato il C. della circostanza sub c), altrimenti sconosciuta, prospettandogli nel contempo la possibilità di porre fine all’annosa questione con l’esborso di un’ingente somma di danaro, si era in tal modo inevitabilmente indotto il C. a ritenere, erroneamente, che il S. avesse inviato da lui il Co. per indurlo all’esborso richiesto.

La conclusione del G.U.P., assolutamente in linea con la scansione documentata degli eventi, è stata quindi nel senso che i toni e le espressioni, adoperate nel corso della medesima conversazione, attesterebbero in modo univoco, che il Co. lasciò volutamente intendere all’avvocato C. , di agire in vece del dottor S. .

La gravata sentenza rafforza infine l’assunto del ragionevole convincimento che il dottor S. fosse il mandante del Co. , e che questi fosse stato investito del compito di sollecitare il C. a versare la somma richiesta, rilevando ancora:

– che a più riprese il Co. aveva riferito al C. che il magistrato gli aveva fatto leggere le dichiarazioni rese nei suoi confronti dal C. stesso; che gli aveva pure chiesto consiglio su come comportarsi, precisando che prima di incontrare il C. è stato lì (in Procura) per più di due ore e che le cose non stanno bene;

– che il Co. , pur non dichiarando espressamente di agire di concerto con il magistrato, si era offerto di organizzare un incontro chiarificatore tra il dottor S. e l’avvocato C. , incontro al quale egli stesso avrebbe partecipato.

In sostanza, per il G.U.P., una volta acclarata, tramite l’escussione dei testi e l’esame del contenuto della conversazione con il Co. , registrata dallo stesso C. , la verità storica di quanto riferito dall’imputato, in sede di denuncia e nell’atto di opposizione all’archiviazione, asseritamente calunniosi (ossia dell’avere ricevuto dal Co. la richiesta di una somma di danaro e di avere, ritenuto che tale richiesta provenisse anche dal Dott. S. ), appare evidente e documentalmente provato che in tale circostanza l’odierno imputato fosse convinto della fondatezza della propria accusa e della colpevolezza dell’accusato.

Si tratta di una argomentazione corretta e adeguata, espressa in modo logico e lineare, rispettosa delle acquisizioni e ai dati processuali, e, per ciò insindacabile in questa sede, se non mediante una non consentita rivalutazione e reinterpretazione del compendio probatorio utilizzato.

Le ulteriori considerazioni di tipo psicologico della gravata sentenza, criticate dal Procuratore della Repubblica ricorrente, sulla ‘assurdità’ ed ‘inverosimiglianza’ dell’ipotesi che un magistrato del P.M. abbia inviato, ad un avvocato penalista, ‘qualcuno’ per tentare di ottenere il pagamento di una somma, in realtà non dovuta, non toccano affatto la correttezza della giustificazione della decisione formulata in punto di insussistenza del delitto di calunnia.

Devesi infatti in proposito ribadire, innanzitutto, che l’esperienza giudiziaria insegna che (su tale tema) non vi è nulla di inverosimile, e che, in secondo luogo, ciò che rileva, ai fini della imputazione ex art. 368 cod. pen., non è la teorica plausibilità ed astratta accettabilità del fatto riferito, anche se paradossale, ma la concreta realtà dello stesso, senza dimenticare che il Co. , nel suo relazionarsi con il C. , ha dimostrato un patrimonio di conoscenza, anche giudiziaria, il quale, per i tempi e le modalità di comunicazione, ben potevano indurre ed accreditare l’erroneo convincimento in capo all’avv. C. di trovarsi di fronte a richieste provenienti dal magistrato.

Infine, in linea con tale lettura dei fatti, il G.U.P., pur affermando che non vi sono elementi per dubitare della buona fede del Co. , ha correttamente spiegato che, per i toni da lui adoperati, per le parole espresse, egli ha contribuito in modo determinante ad ingenerare nell’imputato il convincimento che quella che gli veniva apparentemente prospettata come una bonaria soluzione transattiva (di un’ipotetica e non attuale lite giudiziaria), fosse in realtà una vera e propria richiesta di danaro, proveniente dal diretto interessato, per il tramite di un soggetto (il Co. ) che per anni era stato impiegato nella sua segreteria.

I ricorsi vanno pertanto dichiarati inammissibili con condanna della ricorrente parte civile alle spese processuali e alla somma che si ritiene equa di Euro mille in favore della cassa delle ammende.

 

P.Q.M.

 

dichiara inammissibili i ricorsi e condanna S.A. al pagamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

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