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Suprema Corte di Cassazione

sezione VI

sentenza 21 novembre 2014, n. 48433

Ritenuto in fatto

1. È impugnata la sentenza del 13/01/2014 con la quale la Corte d’appello di Napoli ha confermato la sentenza del Giudice per le indagini preliminari dei locale Tribunale, in data 04/11/2013, di condanna nei confronti di F.R. per il delitto di cui all’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990, relativamente alla detenzione, in concorso con altri, di 38 bustine contenenti marijuana, per un peso lordo di circa 42 grammi (120,7 dosi singole medie).
La Corte territoriale, richiamando la sentenza di primo grado, rileva come l’imputato sia stato notato, nel corso di accertamenti di polizia, mentre si aggirava a bordo di un motociclo in una zona nota come piazza di spaccio, segnalando alle “vedette” la presenza di Carabinieri e, più tardi, indicando ad alcuni tossicodipendenti il luogo in cui era possibile approvvigionarsi di stupefacenti. Dunque non sarebbe dubbio il suo contributo causale al fatto.
L’appello è stato respinto anche quanto all’applicazione del comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990, non potendosi il fatto, nella sua complessiva fisionomia (gestione di una piazza di spaccio, con funzioni di coordinamento, in necessaria contiguità con ambiti di criminalità organizzata, per un quantitativo di droga non trascurabile).
Negate anche le attenuanti generiche, in forza essenzialmente di un precedente specifico recente.
2. Ricorre il diretto interessato, denunciando – a norma dell’art. 606, comma 1, lettere b) ed e), cod. proc. pen. – vizi di motivazione e violazione degli artt. 110, 133, 162 bis cod. pen., 73 d.P.R. n. 309/1990.
I Giudici territoriali si sarebbero mossi in una logica di prevenzione, condannando il R. senza prove effettive di un suo consapevole concorso causale alla detenzione della droga sequestrata dalla polizia giudiziaria.
In ogni caso, avrebbe dovuto farsi applicazione dei comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990, essendo il fatto pertinente ad una piccola quantità di droga, in un contesto organizzativo dei tutto rudimentale, e con un ruolo secondario assunto dal ricorrente (che il Giudice di primo grado avrebbe definito «anello debole della catena»).
Infine, il trattamento sanzionatorio avrebbe dovuto essere più lieve, sia per la corretta applicazione dell’art. 133 cod. pen., sia per il riconoscimento di attenuanti generiche, negate nonostante la giovanissima età dell’interessato.

Considerato in diritto

1. Il ricorso dell’imputato – che per il resto si regge su motivi infondati – contesta le determinazioni assunte dai Giudici territoriali in punto di quantificazione della pena.
A questo proposito va rilevato come, a seguito dell’intervento sopravvenuto della sentenza della Corte costituzionale n. 32/2014, la sanzione inflitta al R. risulti incompatibile con i criteri legali di determinazione, in quanto fissata in misura eccedente rispetto ai valori edittali che devono ormai considerarsi vigenti (in particolare, quanto al massimo, rispetto al limite di sei anni per la reclusione).
Infatti, con decisione integralmente confermata dalla Corte d’appello, il Giudice di primo grado aveva indicato il valore di partenza della sanzione detentiva in sette anni, aumentato fino ad otto anni per la ritenuta recidiva, e diminuito fino a cinque anni e quattro mesi per l’applicazione dell’art. 442 cod. proc. pen.
La sentenza impugnata va dunque annullata con rinvio, affinché la competente Corte territoriale provveda ad una nuova determinazione del trattamento sanzionatorio, da operarsi con riferimento ai valori edittali vigenti riguardo alla illecita detenzione di sostanza stupefacente del genere marijuana.
2. Sono invece infondati, come accennato in apertura, i motivi di censura sviluppati dal ricorrente con riferimento ad altri punti della decisione.
2.1. Va premesso come il ricorso consista essenzialmente nella riproposizione degli argomenti già sottoposti alla Corte territoriale con l’atto di appello, senza una specifica censura delle valutazioni espresse, al proposito, nella sentenza impugnata.
Con riguardo al tema della responsabilità, in particolare, si ripete un generico cenno al difetto di prova del “contributo causale” all’altrui fatto di detenzione, ed un riferimento altrettanto generico alla ritenuta assenza, “sul piano del dolo”, di elementi dimostrativi d’un accordo intercorso tra il R. ed i detentori materiali dello stupefacente.
Il ricorrente dunque contesta, con qualche approssimazione sul piano tecnico, la propria partecipazione ai fatti. I Giudici di merito, in proposito, hanno illustrato le circostanze direttamente percepite dai militari operanti (le ronde sulla piazza, i segnali alle vedette, la “accoglienza” ai tossicomani) e, nell’assenza di puntuali indicazioni contrarie, ne hanno apprezzata in fatto la valenza probatoria: la capacità dimostrativa, cioè, in ordine ad una attività concorsuale di detenzione e cessione di sostanze stupefacenti, della quale portano ovviamente la responsabilità anche i partecipi estranei alla custodia materiale della droga. Si tratta appunto di una valutazione di merito, sufficientemente motivata, che in quanto tale resta sottratta al sindacato di questa Corte.
2.2. Appare altrettanto evidente l’infondatezza delle censure difensive a proposito della ritenuta inapplicabilità, nella concreta fattispecie, della previsione di cui al comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/1990. In entrambe le sentenze di merito la questione è affrontata espressamente, ponendo in rilievo la quantità non trascurabile della droga sequestrata e, comunque, i profili di obiettiva gravità della condotta, sul piano generale (attività organizzata, con ripartizione dei compiti e presidio del territorio, anche in funzione di prevenzione delle attività investigative) e sul piano particolare, avuto riguardo al ruolo di coordinamento e supervisione del R..
A tale ultimo proposito il ricorrente è caduto in un evidente equivoco, poiché il Giudice di prime cure ha riferito la definizione di “anello debole della catena organizzativa” ai pusher ed alle vedette, cioè a coloro che sono più esposti al pericolo di avvistamenti ed arresti, ma subito dopo ha specificato che R. “non svolgeva nessuno di questi due compiti”, operando piuttosto, ed appunto, in qualità di “controllore e coordinatore di attività i cui rischi principali erano assunti da altri”.
La Corte d’appello, riprendendo e confermando tali assunti, ha enunciato un corretto principio di diritto (la tenuità del fatto, rilevante a fini di applicazione del comma 5 dell’art. 73, deve sussistere quanto ad ognuno dei profili di apprezzamento indicati nella fattispecie: ex multis, Sez. 4, Sentenza n. 15020 del 29/01/2014, rv. 259353), e ne ha fatto motivata applicazione. Anche in questo caso, dunque, il sindacato di questa Corte si esaurisce in senso contrario alle censure difensive.
2.3. Un rilievo analogo va infine espresso con riguardo alle doglianze, assai generiche, circa il diniego di applicazione delle attenuanti generiche. La Corte territoriale ha valutato il pertinente motivo di appello, fondato solo sul riferimento alla giovane età dell’interessato, ed ha stimato che la reiterazione del comportamento delittuoso a breve distanza di tempo da un fatto analogo, unitamente all’assenza di un qualsiasi segnale di resipiscenza da parte dell’interessato, dovessero risultare prevalenti. Nel ricorso, il riferimento alle attenuanti è addirittura disperso in una generica doglianza sulla ritenuta durezza del trattamento sanzionatorio.
Di fronte dunque ad una decisione motivata riguardo a fattori pertinenti, e sia pure in termini sintetici, si oppone una censura del tutto generica. Il che conferma, anche per quest’ultimo verso, l’insussistenza di ragioni utili all’accoglimento del ricorso, se non in forza della necessità di una nuova determinazione della pena, in applicazione dei criteri dettati dall’art. 133 cod. pen., alla luce della cornice edittale sopravvenuta al giudizio di appello.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli.

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