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La massima

1. L’abuso richiesto per la configurazione dei reati di “concussione” e di “induzione indebita” non può essere – almeno come fenomeno immanente e comunque quale dato di designazione – identificato nella “indebita richiesta, rivolta dal pubblico ufficiale al privato, di denaro o altra utilità per evitare conseguenze dannose”. Infatti, la “sollecitazione” a dare danaro o altra utilità pur se espressa con la prospettazione di evitare ogni pregiudizio derivante dalla applicazione della legge, mediante un atto contrario ai doveri d’ufficio o una omissione di un atto del proprio ufficio, ancorché reiterata, integra, di norma, nel caso sia rifiutata, il reato di istigazione alla corruzione punita dall’art. 322, commi 3 e 4, c.p., e, se accolta, quello di corruzione consumata, punito dall’art. 319 c.p.. Mentre, la richiesta di denaro rilevante ai fini della “concussione” o della “induzione” è quella preceduta o accompagnata da uno o più atti che costituiscono estrinsecazione del concreto abuso della qualità o del potere dell’agente pubblico, fermi restando i diversi modelli comportamentali in cui si esprime l’abuso, non rilevanti nel sistema previgente.

2. L’induzione richiesta per la realizzazione del delitto previsto dall’art. 319 quater c.p. non è diversa, sotto il profilo strutturale, da quella che già integrava una delle due possibili condotte del previgente delitto di concussione e consiste, quindi, nella condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, abusando del potere o della qualità, determini taluno, consapevole dell’indebita pretesa e non indotto in errore dalla condotta persuasiva dell’agente pubblico, a dare o promettere a lui o a terzi, denaro o altra utilità.

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE VI

SENTENZA 8 aprile 2013, n. 16154

Ritenuto in fatto

1. F..P. impugna la sentenza della Corte d’appello di Venezia con la quale è stata confermata la decisione del giudice di primo grado che, all’esito del giudizio abbreviato, lo condannò per il delitto di concussione.

Il fatto enunciato nell’imputazione ascritta a P.F. – dipendente dell’azienda municipalizzata acquedotto addetto al controllo della fatturazione delle bollette di pagamento e alla ricezione dei reclami – e, come tale, pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio – è di avere indotto, abusando dei suoi poteri e violando i suoi doveri, Te..Pi. a corrispondergli indebitamente mille Euro per modificare l’importo delle somme dovute dalla Pi. per il consumo idrico. In (omissis) .

In particolare, la Corte d’appello ha ritenuto che la vicenda ricostruita dai giudici di merito configurasse il delitto di concussione e non quello di corruzione, poiché la Pi. – destinataria di una richiesta esosa di Euro 10.000, dopo averne già pagato in precedenza Euro 5.000 – era di fronte all’alternativa di corrispondere la notevole somma indicata nei bollettini e in ogni caso subirne l’esazione coattiva e la sospensione dell’erogazione dell’acqua ovvero versare a F..P. la somma richiesta di mille Euro per sistemare la situazione debitoria, in tal modo evitando un pregiudizio maggiore.

Per il giudice d’appello è da escludere anche la configurabilità del delitto di truffa, poiché Te..Pi. non fu indotta in errore a versare la somma dovuta, bensì era ben consapevole di pagare un “tangente” per estinguere il debito nei confronti nell’azienda municipalizzata acquedotto. Alcun rilievo riveste il fatto che le sarebbe stato prospettato che la somma richiesta avrebbe dovuto essere data ad altro “fantomatico” impiegato infedele, trattandosi soltanto di una falsa giustificazione prospettata dall’imputato.

Ad avviso del giudice d’appello, la concussione è stata consumata e non solo tentata, poiché fu perfezionata la consegna del danaro, sebbene il danaro fu per poco tempo nella disponibilità di P. per il tempestivo intervento della polizia cui la Pi. ebbe a denunciare l’accaduto.

Nonostante la somma offerta a titolo di risarcimento danni, pari a centomila Euro, non sia stata ritenuta dalla Corte sufficiente, può comportare, tenuto conto della confessione, l’applicazione delle attenuanti generiche e la riduzione della pena, rispetto a quella inflitta in primo grado, a tre anni e sei mesi di reclusione, su cui applicare la diminuente del rito, e così determinare in due anni e sei mesi di reclusione la pena inflitta.

2. Il Difensore del ricorrente deduce:

– violazione di legge e vizio di motivazione, in quanto è del tutto ingiustificata la omessa riqualificazione del fatto, mancando del tutto la prova di una condizione di soggezione di Pi.Fi..

Uno stato di agitazione non può essere confuso con una soggezione, perché non fu usata né alcuna violenza né forma di costrizione, non essendo stato prospettato nulla di pregiudizievole se Pi.Te. non avesse accettato la proposta e pagato le somme richiesta dall’azienda. La Pi. ebbe a rendersi conto che si trattava di una “tangente” richiesta per estinguere il presunto debito nei confronti dell’azienda.

Tale ricostruzione è stata disattesa dal giudice d’appello, senza una espressa motivazione, al pari dell’ipotesi di tentativo del quale non si è considerato correttamente e razionalmente se la vittima avesse accettato o meno la proposta. Un dato certo, per la difesa, è che la donna non ha accettato la proposta, in quanto il suo unico obiettivo era quello di fare arrestare P. .

– mancato riconoscimento della diminuente del risarcimento del danno.

La Corte d’appello, nonostante dia atto che la persona offesa non abbia subito alcun danno, ritiene insufficiente l’offerta di risarcimento.

Il giudice d’appello non giustifica perché la pena sia stata determinata in misura superiore ai minimi edittali, nonostante l’espressa censura con i motivi d’appello.

Ulteriore profilo è la censura relativa alle pene accessorie, poiché essendo stata inflitta una pena inferiore ai tre anni: a) la sanzione accessoria ex art. 317 bis, comma 2, dell’interdizione dai pubblici uffici non avrebbe potuto essere perpetua, ma temporanea; b), ex art. 32 quinquies c.p. non avrebbe potuto essere applicata la sanzione dell’estinzione d’ufficio del rapporto di lavoro, applicabile solo là dove sia inflitta una pena non inferire a tre anni di reclusione.

 

Considerato in diritto

 

1. Il ricorso è infondato. Ciononostante la sentenza impugnata va annullata con rinvio, poiché il fatto va ricondotto ex art. 2, comma 4, c.p. nell’ambito del delitto di “induzione indebita” prevista dall’art. 319 quater c.p., punito con pena inferiore rispetto al previgente art. 317 c.p. in base al quale è stata determinata ab origine la sanzione inflitta.

Non può che essere ribadito quanto già affermato da questa Corte nel senso che la induzione, richiesta per la realizzazione del delitto previsto dall’art. 319 quater e. p., così come introdotto dall’art. 1, comma 75, della legge n. 190 del 2012, non è diversa, sotto il profilo strutturale, da quella che già integrava una delle due possibili condotte del previgente delitto di concussione di cui all’art. 317 c.p. e consiste, quindi, nella condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, abusando del potere o della qualità, attraverso le forme più varie di attività persuasiva, di suggestione, anche tacita, o di atti ingannatori, determini taluno, consapevole dell’indebita pretesa e, è utile ancora sottolinearlo, “non indotto in errore dalla condotta persuasiva dell’agente pubblico” – altrimenti non potrebbe che configurarsi il delitto di truffa aggravata ex art. 61 n. 9 c.p. – a dare o promettere, a lui o a terzi, denaro o altra utilità. (Sez. VI, 4 dicembre 2012, dep. 21 febbraio 2013, n. 8695).

Il Collegio esprime perplessità sul diverso significato “strutturale” di induzione che altra decisione ha ritenuto di individuare nel precetto racchiuso nel primo comma dell’art. 319 quater, comma 1, c.p. secondo cui l’induzione, che costituisce l’elemento oggettivo della fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p., così come introdotta dall’art. 1, comma 75, legge 6 novembre 2012, n. 190, sussiste quando, in assenza di qualsivoglia minaccia, vengano prospettate, da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, conseguenze sfavorevoli derivanti dall’applicazione della legge, per ottenere il pagamento o la promessa indebita di denaro o altra utilità (Sez. VI, 3 dicembre 2012, dep. 22 gennaio 2013, n. 3251).

Anzitutto, ciò rende problematica l’affermazione che vi sia “continuità normativa”, mentre il diverso orientamento prima citato, postula la continuità normativa piena tra il nuovo art. 319 quater, comma 1, e l’induzione di cui al testo originario dell’art. 317 c.p., che anche la decisione ricordata ritiene un fenomeno non discutibile nella successione delle leggi ora in esame.

Se la “induzione” dovesse essere definita nel senso indicato dal diverso orientamento quale unico e nuovo “elemento strutturale” del delitto di “induzione indebita”, saremmo in presenza di un fenomeno di successione di norme che non potrebbe che comportare ex art. 2, comma 2, c.p.p. una vera e propria “abolitio criminis” per coloro che siano stati condannati per il delitto di concussione mediante “induzione” – racchiusa nel vecchio testo dell’art. 317 c.p. e realizzata con un’azione tipica che sinora la giurisprudenza ha diversamente definito – tenuto conto che non si è verificato un mero mutamento di giurisprudenza, ma è stata introdotta una nuova fattispecie incriminitrice il cui precetto sarebbe disegnato da significato diverso da quello antecedente allo jus novum, tanto da incidere sul diritto vivente, modificandone i contenuti e le scelte costanti nell’interpretazione del testo previgente. Ciò senza contare che viene a essere emarginato il momento di rilevanza ermeneutica cruciale anche della nuova ipotesi di reato, vale a dire l’abuso della qualità e dei poteri e il metus derivante da tale condotta. Ne potrebbe derivare la conseguenza che individuata l’ipotesi di reato di cui all’art. 319 quater c.p. nei termini sopra indicati la “prospettazione, da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, di conseguenze sfavorevoli derivanti dall’applicazione della legge, per ottenere il pagamento o la promessa indebita di denaro o altra utilità” possa lambire la dinamica corruttiva che – indipendentemente dall’autore dell’iniziativa – caratterizza il pactum sceleris tra corruttore e corrotto.

Sembra, dunque che, nell’attuale contesto normativo, tale soluzione interpretativa rischia di sopprimere la distinzione – che ha basi ontologiche prima che normative – tra “induzione” e “sollecitazione” (peraltro inclusa, nel regime previgente, nell’area della induzione), con possibili interferenze con la “istigazione” alla corruzione da parte dell’agente pubblico, prevista dall’art. 322, commi 3 e 4, c.p., vale a dire con la proposta, o che dir si voglia “prospettazione”, a “vendere” l’esercizio della funzione o un “atto contrario ai suoi doveri o omettere o a ritardare un atto del suo ufficio” per evitare conseguenze “dannose dall’applicazione della legge”. Il fatto è che proprio dalla comparazione tra il testo originario dell’art. 317 c.p. e le innovazioni normative del 2012 che ha delineato due fattispecie di reato sovrapponibili solo per taluni profili (a partire dall’abuso della qualità e dei poteri, che mantiene in entrambe le ipotesi di reato un ruolo centrale) emerge come l’induzione non possa qualificarsi come risultato, surrettiziamente operando comparazioni con diverse fattispecie( come ad esempio la previsione dell’art. 377 bis) perché in ognuna delle ipotesi considerate l’induzione non può qualificarsi altrimenti che come condotta, che nell’ipotesi di cui all’art.319 quater resta disegnata da un tasso di determinazione semantica non delimitata da quei contrassegni di comportamenti tipici che ne costruiscono il presupposto. Il tutto secondo sequenze rispondenti alla nozione di induzione delineata dal testo previgente dell’art. 317.

In conclusione, l’abuso richiesto per la configurazione dei reati di “concussione” e di “induzione indebita” non può essere – almeno come fenomeno immanente e comunque quale dato di designazione – identificato nella “indebita richiesta, rivolta dal pubblico ufficiale al privato, di denaro o altra utilità per evitare conseguenze dannose”. Infatti, la “sollecitazione” a dare danaro o altra utilità pur se espressa con la prospettazione di evitare ogni pregiudizio derivante dalla applicazione della legge, mediante un atto contrario ai doveri d’ufficio o una omissione di un atto del proprio ufficio, ancorché reiterata, integra, di norma, nel caso sia rifiutata, il reato di istigazione alla corruzione punita dall’art. 322, commi 3 e 4, c.p., e, se accolta, quello di corruzione consumata, punito dall’art. 319 c.p.. Mentre, la richiesta di denaro rilevante ai fini della “concussione” o della “induzione” è quella preceduta o accompagnata da uno o più atti che costituiscono estrinsecazione del concreto abuso della qualità o del potere dell’agente pubblico, fermi restando i diversi modelli comportamentali in cui si esprime l’abuso, non rilevanti nel sistema previgente.

È la costruzione letterale e logica delle norme di cui all’art. 317 e 319 quater c.p. che prevede l’abuso quale causa efficiente dell’induzione al pagamento, e non come avviene nella corruzione, quale risultato dell’azione delittuosa a condurre a una simile conclusione.

1.1. Va dato atto, però, che la pronuncia ora ricordata – pur non condivisa da questo Collegio nella parte in cui descrive le modalità dell’azione come risultato della condotta che integra il delitto di induzione indebita – appare significativa là dove introduce un “indice sintomatico” della “induzione indebita”, quale quello “della prospettazione di conseguenze sfavorevoli da parte del pubblico agente per ottenere il pagamento o la promessa indebita”; elemento, però, che non esaurisce di per sé solo le modalità dell’azione richieste per la configurazione dell’induzione indebita.

Indice sintomatico, pur ravvisabile nel caso concreto, di una condotta che – concettualmente a forma libera e semanticamente definibile come “pressione psicologica” – si caratterizza, pure in base all’autonoma fattispecie, come “persuasione” o “suggestione”, anche tacita, o mediante “atti ingannatori”, che – ed è questo il punto di rilevanza ermeneutica davvero cruciale – quali forme di abuso della qualità o del potere, determinino taluno, pur consapevole dell’indebita pretesa del pubblico agente, a dare o promettere danaro o altre utilità.

2.Nel caso ora al vaglio della Corte, il giudice d’appello ha condiviso l’impostazione dell’accusa, secondo cui Pi.Te. fu “indotta” a promettere e poi a corrispondere a P.F. la somma di danaro richiestale “per definire” la situazione debitoria con la “azienda municipalizzata acquedotto” dopo avere ricevuto una bolletta di Euro 5.000, da lei regolarmente pagata, e poi ancora altra bolletta di pagamento all’ente erogatore di Euro 10.000.

Per tale ragione, Te..Pi. si recò negli uffici dell’ente erogatore e si rivolse a P. , addetto al controllo e fatturazione degli importi relativi al consumo dell’acqua. P. , descrive la Corte di merito, ebbe subito a rendersi conto dello stato di “difficoltà e soggezione” in cui era Te..Pi. per tale ulteriore richiesta di pagamento e, approfittando di tale stato, ebbe a dirle di stare “tranquilla” poiché aveva trovato “un santo d’uomo, disposto così com’era” ad aiutarla; in tale occasione P. , precisa la Corte d’appello, ebbe a formulare la richiesta di danaro con la “consapevolezza” dello stato di “soggezione” e “difficoltà” in cui si trovava la vittima.

Nella ricostruzione della Corte di merito appare evidente che, all’esito del primo incontro con P. , Pi.Te. “accettò” la proposta e poi denunciò il fatto agli organi di polizia. La circostanza che vi fu “accordo” discende dal fatto che, nella logica ricostruttiva della sentenza impugnata, P. ebbe a organizzare il successivo incontro con la Pi. , con cautele volte a evitare il rischio che la consegna di danaro potesse essere notata da estranei. Il danaro fu così consegnato a P. che lo tenne per sé solo pochi minuti prima dell’intervento degli organi di polizia.

Lo sviluppo della vicenda, come delineato nella sentenza impugnata, da conto che in realtà vi fu “induzione indebita” di Pi.Te. a promettere la somma di danaro richiesta da P. per porre rimedio alla definizione della pendenza debitoria nei confronti dell’ente acquedotto; pendenza che la Pi. riteneva ingiustificata nel suo ammontare e, per tale ragione, era “agitata” e in una condizione di seria “difficoltà” e, pertanto, facilmente “suggestionabile” dalla pretesa di danaro rivoltale da P. per definire al meglio la pratica; pretesa della quale era ben consapevole che fosse del tutto “indebita”, tanto da ritenerla una “tangente”.

Le modalità dell’azione di P. – come peraltro descritto nell’imputazione e condiviso dai giudici di merito – realizzavano una “indebita induzione”, quale espressione dell’abuso di potere.

La condotta – per le ragioni descritte in termini corretti nella sentenza impugnata – non si arrestò al mero tentativo, ma realizzo una “concussione per induzione consumata”, in ragione del fatto che fu raggiunto il risultato della “accettazione della richiesta”, rectius, della promessa, anche se poi seguita da un ripensamento il cui esito fu la denuncia dei fatti.

In altri termini, la promessa fu effettiva, mentre l’accordo per la consegna del danaro, con le cautele volute da P. , si caratterizzò anche per il fatto che poi P. tenne per sé il danaro giusto il tempo richiesto per l’immediato intervento della polizia. Promessa effettiva, forse sorretta anche dalla speranza che un intervento della polizia avesse poi potuto impedire la consegna del danaro.

La “induzione indebita” (all’epoca concussione per induzione), ad avviso del Collegio, fu dunque consumata.

In tal senso si è più volte espressa questa Corte, affermando che integra il delitto di concussione consumata la promessa di denaro fatta dal privato al pubblico ufficiale, anche se la stessa sia sorretta dalla speranza – in ragione la denuncia del privato era stata presentata prima della consegna del denaro – che un efficace intervento delle forze dell’ordine ne impedisca l’adempimento, non potendosi ritenere sufficiente ad escludere il “metus publicae potestatis” la sola circostanza che il soggetto passivo si sia rivolto alla forze di polizia, per sottrarsi alle pretese dell’autore del reato. Fattispecie in cui (Sez. VI, 5 aprile 2012, dep. 30 maggio 2012, n.20914; Sez. VI, 20 aprile 2011, dep. 5 maggio 2011, n. 17303; Sez. VI, 4 febbraio 1994, dep. 9 settembre 1994, n.9747).

Corretta e coerente con le risultanze processuali, come descritte nella sentenza impugnata, le modalità dell’azione e la qualificazione giuridica del fatto.

3. Il fatto, nelle corrette dinamiche ricostruite nella sentenza impugnata, va oggi qualificato come “induzione indebita” prevista dall’art. 319 quater c.p..

Non può sottacersi che un significato decisivo potrà rivestire la “riserva mentale” per escludere la punibilità o attenuare la gravità nell’ipotesi – che qui non rileva – di operatività della nuova incriminazione del privato ex art. 319 quater, comma 2, c.p.; né può escludersi in prospettiva il ricorso agli istituti della desistenza o del recesso attivo i quali potrebbero operare non soltanto nell’ipotesi di tentativo, ma anche là dove alla promessa, che di per sé sola perfeziona il reato, faccia seguito la dazione e prima che tale ultimo evento si verifichi.

In tal senso si è già in passato espressa la giurisprudenza che – sul presupposto che la dazione non sia un post factum non punibile, bensì un approfondimento dell’offesa tipica – ha ritenuto che il delitto di “concussione” rappresenti una fattispecie a duplice schema, nel senso che si perfeziona alternativamente con la promessa o con la dazione indebita per effetto dell’attività di costrizione o di induzione del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, sicché, se tali atti si susseguono, il momento consumativo si cristallizza nell’ultimo, venendo così a perdere di autonomia l’atto anteriore della promessa e concretizzandosi l’attività illecita con l’effettiva dazione, secondo un fenomeno assimilabile al reato progressivo (Sez.VI, 5 giugno 2007, dep. 2 agosto 2007, n. 31689;Sez.I, 2 dicembre 2005, dep. 29 dicembre 2005 n. 47289; Sez. VI, 8 novembre 1996, dep. 17 dicembre 1996, n. 10851).

Tale regula juris potrà essere applicata anche per la “induzione indebita” e, in particolare, per verificare se vi sia stato tentativo e se possa ricorrere o meno la causa di non punibilità della desistenza, fermo restando, almeno sul piano probabilistico, il rilievo della riserva mentale che sembra collidere con quella sorta di “divieto di collaborazione” contemplato dall’art. 319 quater, 2 comma, c.p., ma che pure non può essere allineata alle soluzioni interpretative seguite in tema di corruzione (cfr., ex plurimis, Sez. VI, 11 gennaio 1984, dep. 21 marzo 1984 n. 2613).

4.In conclusione, qualificata l’imputazione ai sensi dell’art. 319 quater c.p., la sentenza impugnata va annullata limitatamente alla misura delle pene principali e accessorie e rinviata per rideterminazione di dette pene ad altra Sezione della Corte d’appello di Messina.

Rispetto a tale diversa qualificazione, la Corte di merito valuterà, con adeguata e non meramente assertiva giustificazione, anche la sussistenza degli elementi richiesti per l’applicazione della diminuente del danno.

P.Q.M.

Qualificata l’imputazione ai sensi dell’art.319 quater c.p., annulla la sentenza impugnata limitatamente alla misura delle pene principali e accessorie e rinvia per la determinazione delle pene stesse ad altra Sezione della Corte d’appello di Messina.

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