Corte di Cassazione

Suprema Corte di Cassazione

sezioni unite

sentenza 16 dicembre 2015, n. 25285

Svolgimento del processo

1) È impugnato il provvedimento cautelare disciplinare adottato dalla sezione competente del CSM il 16 aprile 2015, con il quale è stata disposta la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio ed il collocamento fuori ruolo del magistrato incolpato.
Questi è stato condannato il 23. 12. 2013 per il reato di abuso in atti di ufficio, così derubricando l’iniziale accusa di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio.
La condanna dalla quale il CSM ha tratto prova del fumus boni iuris concerne l’accusa di avere emesso quale Giudice indagini preliminari una misura interdittiva nei confronti di una s.p.a., nominando commissario giudiziale persona legata a lui da antica amicizia; aver suggerito al commissario di avvalersi quale consulente della collaborazione del proprio suocero, nonché della propria moglie avvocato; di essersi adoperato presso il commissario per favorire l’inserimento del suocero quale amministratore della società dopo la cessazione del commissariamento.
Il requisito del periculum è stato rinvenuto nella circostanza che, per le modalità del fatto e l’intensità dell’elemento soggettivo, secondo la Sezione disciplinare, il magistrato potrebbe similmente abusare del proprio ruolo per favorire interessi propri o di familiari o conoscenti, anche se adibito ad altre funzioni.
Il trasferimento ad altra sede è stato ritenuto insufficiente perché anche in altre funzioni si fa luogo ad assegnazione di incarichi.
L’incolpato ha proposto ricorso per cassazione, svolgendo tre articolati motivi.
Il Ministro è rimasto intimato.

Motivi della decisione

2) Con il primo motivo di ricorso il magistrato denuncia “erronea applicazione dell’art. 22 d.lgs 109/06 in riferimento all’art. 606 ci lett. b) ed e) c.p.p..
Il motivo lamenta che la Sezione disciplinare ha continuato ad affermare la sussistenza di un accordo preventivo tra giudice, commissario giudiziale e suocero del magistrato, sebbene l’esistenza di tale accordo sia stata negata dal tribunale, che ha escluso il delitto di corruzione.
Il motivo non coglie nel segno, giacché non individua la ratio decidendi del provvedimento disciplinare cautelare.
Quest’ultimo è mirato infatti (paragrafo 3) sul reato concretamente posto a base della condanna da parte del Gup, cioè sul reato di cui “all’art. 323 co 1 e 2 cp.”.
In particolare “il fumus di fondatezza della richiesta della Procura Generale” è stato ravvisato nei fatti riassunti nel citato paragrafo, nel quale non si fa riferimento alcuno allo scopo corruttivo, di cui doverosamente discorreva il paragrafo precedente nel narrare i fatti di causa.
3) Il secondo motivo denuncia “violazione delle regole di apprezzamento della prova. Erronea valutazione di circostanze decisive. Vizio di motivazione. Art. 192, 291, 292 c.2 lett. c), c) bis c.p.p. 311, 606 lett. B) e) c.p.p.”.
Il ricorso lamenta che nel provvedimento disciplinare vi sia riferimento sempre all’ipotesi accusatoria iniziale, superata in sede penale. Si duole che non siano state considerate le fonti di prova testimoniale addotte per contestare il costrutto di base dell’accusa.
A tal fine si sostiene:
– che il magistrato non aveva fatto alcuna segnalazione al commissario “per gli incarichi alla moglie”;
– che l’accusa di aver pilotato l’inserimento del suocero nella società, inducendo la revoca del commissariamento per favorire tale inserimento contrastava con la legittimità di una simile iniziativa da parte del commissario, confortato da parere qualificato di un docente universitario;
– che non vi era prova che il magistrato si fosse adoperato per la nomina del suocero ad amministratore unico, proposta partita da un socio GEC;
– che la sentenza penale, a proposito del compenso, ha da un lato parlato di danno ingiusto, dall’altro ha escluso il risarcimento del danno patrimoniale. Deduce in proposito che il compenso del suocero venne stabilito dal Commissario; che la moglie non ha percepito alcun compenso
Infine riporta la testimonianza del Commissario sulle circostanze che condussero alla nomina del suocero, per dedurne che si trattò di indicazione casuale, lontana da ogni indebita sollecitazione.
Il cuore del motivo, articolato in sostanza in un improprio riesame della vicenda penale, sembra risiedere nella censura (pag. 5 prima parte) di omessa o inadeguata valutazione in ordine a “elementi decisivi per la decisione” o alla valutazione di “gravità degli addebiti” riferita al “periculum in mora di cui al punto 4 dell’Ordinanza”.
Anche questa doglianza è infondata.
La ordinanza disciplinare ha infatti valutato il fatto come desunto dalla sentenza penale di condanna, che è stata pronunciata, e che muove dai presupposti indicati a pag. 5 del provvedimento, in fine. È infatti il giudice penale ad affermare (pag. 27) che l’imputato aveva scelto il commissario giudiziale per sola amicizia; che, “poco dopo aver nominato l’amico”, egli aveva fatto il nome del suocero e della moglie al fine di far loro conferire incarichi; che si era adoperato per rendere stabile e definitivo il ruolo del suocero alla guida della società (pag. 28 sentenza).
È dunque certo che vi è stato un apprezzamento dei fatti come accertati della sentenza penale. Non era necessario né doveroso, ai limitati fini cautelari, un nuovo scrutinio della vicenda penale, né tantomeno era possibile una sua diversa definizione in termini di esistenza o meno della rilevanza penale degli addebiti. La valutazione, posto che si ragionava di condanna penale già pronunciata e non di mere accuse soggette a verifica, risulta adeguata allorquando, come nella specie, vengano indicati i fatti ritenuti di maggior rilievo disciplinare, di cui deve essere poi stabilita la gravità ai fini del provvedimento cautelare.
La motivazione era quindi del tutto adeguata.
4) Queste considerazioni assumono rilevanza anche al fine di disattendere l’ultimo profilo di censura, con il quale parte ricorrente espone, “con riferimento al periculum in mora”, “erronea valutazione di circostanze ritenute decisive. Vizio di motivazione per travisamento della prova”.
La censura si riferisce alla valutazione di gravità degli addebiti e alla intensità dell’elemento soggettivo e concentra l’attenzione su un passaggio della motivazione. Si tratta della deposizione resa da un notaio amico del magistrato, il quale aveva messo in guardia il giudice dal coinvolgere il suocero nella procedura.
Il ricorso sostiene che la Sezione disciplinare sarebbe incorsa in travisamento del fatto in ordine al periodo della conversazione tra il giudice e il notaio, che sarebbe avvenuta dopo la indicazione del suocero al commissario giudiziale e non prima.
Ciò farebbe venir meno il giudizio dato dalla Sezione sulla intensità dell’elemento soggettivo, nella parte in cui la Sezione ha considerato significativo che l’incolpato non intese accogliere il consiglio dell’amico notaio e si adoperò ugualmente per coinvolgere il suocero nel procedimento.
Il rilievo è infondato per duplice ordine di ragioni.
In primo luogo non può dirsi che vi sia stato travisamento del fatto, giacché non v’è certezza delle date dei due eventi. Lo stesso ricorso da atto che la sentenza colloca l’incontro tra il notaio e il giudice nel dicembre 2012, senza precisare il giorno. Inoltre pur se l’incarico al suocero venne affidato sin dai primi giorni di dicembre (5-6 si legge a pag. 20 della sentenza GUP, specificamente richiamata in ricorso), ivi si legge pure, subito dopo, che il 9 si tenne una riunione alla presenza sia del giudice che del suocero. Dunque vi fu un margine temporale abbastanza ampio prima che si consolidasse l’incarico e nulla impone di credere che solo dopo il 9 dicembre il notaio abbia suggerito al giudice di astenersi dal coinvolgimento del suocero.
Non vi può però essere travisamento se non vi è certezza di date.
In ogni caso, ed è la seconda ragione di infondatezza, si tratterebbe di circostanza non decisiva. Il rimprovero mosso all’incolpato, peraltro a corollario della valutazione dell’elemento soggettivo, è stato quello di aver direttamente e attivamente coinvolto il suocero nel procedimento in cui svolgeva funzioni di Gip.
In tale coinvolgimento non ha assunto però rilievo solo la designazione quale consulente del commissario, ma anche il tentativo di veicolare il suocero quale nuovo dirigente della società dopo la revoca del commissariamento, fase sicuramente svoltasi dopo il colloquio decembrino con il notaio.
D’altra parte,dal punto di vista logico,è facile comprendere che, ai fini della rilevanza disciplinare attribuita dalla Sezione, il rimprovero vale sia per l’adoperarsi ai fini della designazione, sia per il mantenere il coinvolgimento del suocero in una procedura in cui si riveste l’incarico di gip, nonostante la presa di consapevolezza della disapprovazione sociale attestata dal consiglio del notaio. È quest’ultimo infatti l’elemento che rende più visibile e incontestabile (fermo il disvalore oggettivo) l’intensità del volere la condotta censurata.
4.1) Invano il ricorso afferma che il pericolo di reiterazione di condotte similari è stato ritenuto in mancanza di motivazione circa la concretezza ed attualità della misura, a distanza di due anni dai fatti del procedimento.
Ed invano il ricorso sottolinea il mutamento di funzioni e di sede avvenuto nelle more.
La Sezione disciplinare ha considerato la gravità degli addebiti; ha sottolineato la pienezza dell’elemento soggettivo; ha osservato che anche nelle nuove funzioni di giudice civile non mancano le occasioni in cui potrebbe ripetersi una condotta – affidamento di incarichi retribuiti ad ausiliari – viziata da analoghe deviazioni.
Trattasi di valutazioni di merito che non sono immotivate o illogiche.
Traggono infatti spunto non da una opinabile prognosi circa l’sito del processo penale, come avviene talora in occasione dei provvedimenti cautelari, ma da una condanna penale circostanziata sulla base di fatti di rilevanza disciplinare, considerati pacifici dalla sentenza del GUP.
In questa chiave giova ricordare (Cass. SU n. 17904/09) che ai fini della valutazione discrezionale sulla opportunità di procedere alla sospensione cautelare facoltativa del magistrato dalle funzioni e dallo stipendio, ai sensi dell’art. 22 d.leg. 23 febbraio 2006 n. 109, assume un rilievo essenziale la gravità della contestazione, alla quale innanzitutto è correlata la compatibilità della permanenza nelle funzioni, mentre non può considerarsi determinante la prospettiva di un imminente trasferimento dell’incolpato.
Pertanto è ineccepibile, alla luce della circostanza che la contestazione è addirittura sorretta da condanna penale, una valutazione mirata soprattutto sulla gravità dei fatti e la pienezza dell’elemento soggettivo. Risulta infatti per questa via ancor più incensurabile in sede di legittimità la congruità della valutazione resa dal Consiglio.
È in proposito da ricordare che secondo l’art. 22, come modificato dall1 articolo 1, comma 3 della Legge 24 ottobre 2006, n. 269, solo nei casi di minore gravità il Ministro della giustizia o il Procuratore generale possono chiedere alla sezione disciplinare il trasferimento provvisorio dell’incolpato ad altro ufficio di un distretto limitrofo, in luogo della misura della sospensione cautelare facoltativa.
Si percepisce in questa normativa che in un caso del genere – cioè di accertamento già retto da condanna penale – nel quale non vi sono quindi incertezze sulla rilevanza penale dei fatti addebitati, un maggior rigore è concepibile e voluto proprio in sede cautelare e non in sede di merito, nella quale si può scendere ad una valutazione sanzionatola più distesa e articolata.
5) Resta quindi insindacabile l’apprezzamento della Sezione disciplinare.
Il ricorso è rigettato.
Non v’è luogo a pronuncia sulle spese, in assenza di intimati costituiti.
Non essendo previsto pagamento del contributo unificato, non è applicabile il disposto di cui all’art. 1 quater del d.p.r 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dal comma 17 dell’art. 1 della legge n. 228/12.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

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