La massima

E’ soggetto a sanzione disciplinare per violazione dell’art. 58 co. 1 del Codice Deontologico Forense, l’avvocato che, in pendenza di una causa civile, consente alla persona indicata come teste nel procedimento medesimo, di prendere parte al colloquio tra il legale ed il suo assistito, nonché accredita dinanzi al giudice, la falsa dichiarazione resa dal testimone stesso.

Il testo integrale

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 18-27 ottobre 2011, n. 22380

A seguito di esposto in data 13.6.2007 presentato dall’avv. B.P., il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Bergamo, sentita l’avv. N.C.L., deliberò l’apertura di procedimento disciplinare a suo carico per fatti integranti violazione dell’art. 58 c. 1 del Codice Deontologico Forense, fatti relativi alla partecipazione, ad un colloquio tra il legale e la sua assistita ed in pendenza di una causa civile, della persona che sarebbe stata indicata come teste nella causa stessa, nonché alla circostanza di aver successivamente accreditato innanzi al giudice la falsità della deposizione dal teste resa perché difforme dalla versione ascoltata in quel colloquio. A conclusione del procedimento il predetto CO.A. – ritenuta la incolpata responsabile – con decisione 24.3.2009 le comminò la sanzione dell’avvertimento. L’avv. C.L. propose quindi ricorso al Consiglio Nazionale Forense lamentando irregolarità nella conduzione delle indagini, violazioni nella escussione in tal fase di essa incolpata, difformità della contestazione dai fatti oggetto di indagine e, nel merito, la insussistenza di alcun profilo deontologicamente rilevante nei fatti oggetto di addebito. Il Consiglio Nazionale Forense con decisione del 25.10.2010 ha rigettato il ricorso osservando:

– che non aveva rilievo la mancata acquisizione nella fase delle indagini preliminari presso il COA dell’intero verbale di udienza né la mancata completa audizione dell’interessato in tal fase, posto che la fase istruttoria non è indispensabile e può essere del tutto assorbita dalla immediata apertura del procedimento e che quel che rileva è la specificità del fatto contestato in tal sede e non la sua difformità da atti pregressi;

– che il fatto ascritto era provato e rilevante sul piano disciplinare dato che l’avv. C.L. aveva mancato al suo dovere di riservatezza facendo partecipare al colloquio con il proprio cliente un estraneo al fine di predisporre una testimonianza sul colloquio stesso, e che la stessa professionista aveva deciso di rendere dichiarazioni su fatti ed elementi difensivi coperti dal segreto in tal modo assumendo la veste di testimone nel giudizio civile senza previa rinuncia al mandato in violazione dell’art. 58 CDF. Per la cassazione di tale decisione – notificata il 7.4.2011 – l’avv. N..C.L. ha proposto ricorso con quattro motivi notificando l’atto al COA di Bergamo ed al P.G. presso la Cassazione in data 8-13.5.2011. L’intimato COA non ha svolto difese.

Motivi della decisione

Rilevato che il ricorso risulta tempestivamente notificato e depositato ai sensi degli artt. 56 c. 3 RD 1578 del 1933 e 66 u.c. e 67 c. 1 RD 34 del 1937, ritiene il Collegio che le censure mosse alla decisione del CNF non meritino condivisione.

Con il primo motivo si censura la decisione del CNF per avere fatto capo a fatti privi di alcuna base di prova e ad asserzioni affatto gratuite, quali la procurata presenza di un teste a colloquio riservato (nel mentre il teste era stato addotto dalla cliente) e la incomprensibile accusa di aver premeditato di proporre se stessa come testimone della falsità del teste stesso senza previa rinuncia al mandato.

Con il secondo motivo si addebita lo stravolgimento perpetrato dal CNF sulla statuizione del COA, l’organo locale avendo addebitato di aver proposto sé stesso al giudice come teste “atipico” (nel mentre a leggere i verbali si rilevava che si era trattato solo di una capitolazione su colloqui avvenuti nel suo studio con indicazione come testi di altri due soggetti) ed il CNF avendo riqualificato la vicenda come vera e propria assunzione di veste di teste nel giudizio stesso.

Con il terzo e quarto motivo si lamentano violazioni avvenute innanzi al COA di Bergamo nella fase delle indagini anteriori alla apertura del procedimento.

Si osserva, quanto ai motivi (3 e 4) denunzianti violazioni avverate nella fase delle indagini preliminari innanzi al COA, motivi che essendo connessi ben possono congiuntamente esaminarsi, che appare corretta la decisione del CNF posto che l’area del rilevante sul piano dei diritti dell’incolpato coincide con quanto esposto e contestato nella delibera – notoriamente ricorribile (S.U. 29294 del 2008 e 22624 del 2010) – di apertura del procedimento; di contro nessuna lesione può avverarsi nella fase antecedente, a carattere informativo – istruttorio, fase affatto eventuale e alla cui “gestione” il futuro incolpato non ha diritti di accesso di sorta (S.U. 20843 del 2007, 3880 del 2010, 11564 del 2011). Venendo al merito, e quindi alla disamina dei primi due motivi del ricorso, occorre ricordare quanto affermato dalla decisione di queste S.U., recante il n. 15852 del 2009, sul valore integrativo od indicativo delle previsioni del Codice Deontologico Forense approvato con delibera 15/2008 del CNF, nel senso che dette previsioni integrative delle norme ben possono ispirarsi a concetti diffusi e recepiti nel sentire collettivo con riguardo ai doveri dei professionisti di astensione da contegni lesivi del decoro e della dignità professionale.

In tal quadro e su tali premesse non appare pertanto frutto di alcuna indebita “forzatura” la lettura che degli artt. 52 comma 1 e 58 comma 1 l’organo disciplinare e quindi il giudice disciplinare forense hanno inteso dare, coniugando con la esigenza del rispetto della lettera delle previsioni una loro interpretazione che ricomprenda comportamenti che attentino alla “sostanza” dei valori deontologici che le previsioni mirano a garantire.

Il C.N.F. nella impugnata decisione ha in realtà solo formalmente – a pag. 4 della motivazione – distinto i due momenti della condotta censurata, quello occorso nello studio professionale dell’avv. C.L. e quello successivamente tenuto in udienza nella causa civile nella quale il professionista prestava la propria opera: la ricostruzione dei fatti che è sottesa alla solo apparente scomposizione della vicenda in comportamenti costituenti infrazione disciplinare è infatti chiaramente unitaria. Non si addebita affatto all’avv. C.L. di aver sol sentito in studio il futuro teste condotto dalla cliente, addebito che, ove realmente formulato, avrebbe rettamente prestato il fianco alle censure di cui al ricorso (che giustamente rammenta come la previa verifica di rilevanza e conducenza della informazione sui fatti del teste è compito del difensore anche in sede civile e che solo le suggestioni e forzature defensionali sul teste stesso sono stigmatizzate dall’art. 52 c. 1 del CDF): gli si addebita, invece, di aver condotto l’incontro in un contesto (l’assenza di riservatezza cagionata dalle persone presenti) che ben si prestava a farlo ritenere orientato ad acquisire prove testimoniali su quel che in tal incontro veniva narrato.

Così, e sotto il secondo versante, e per quanto la non limpida motivazione della decisione faccia ritenere plausibili i rilievi mossi in ricorso, il CNF a ben vedere non addebita affatto al professionista di aver realmente “assunto la veste” di testimone su quei fatti noti – il che avrebbe comportato un censurabile stravolgimento dei fatti attestati dai verbali della causa civile – ma stigmatizza, come impone la consecuzione della seconda valutazione alla prima (alla luce di quanto il ricorso stesso riferisce essere stata la decisione del COA condivisa dal CNF), che il professionista abbia portato a compimento la “strategia” impostata con la escussione “pubblica” del teste nel proprio studio, quella di addurre, per contrastare la versione dei fatti dal teste poi riferita al giudice, la diversa versione resa in quella riservata prima escussione e di chiamare a deporre le persone presenti a quella escussione, un collaboratore ed un collega di studio, in tal guisa accreditando con la propria personale autorevolezza la persuasività delle circostanze che la articolazione probatoria esponeva.

È del resto lo stesso ricorso a precisare (punto A pagg. 12 e 13) che la richiesta di prova, articolata contestualmente al deposito della querela per falsa testimonianza proposta dalla cliente, verteva sulle dichiarazioni e precisazioni che la teste aveva formulato all’avv. C.L. nei di lei studio professionale alla presenza del collega avv. B..F. e della segretaria di studio J.D.

Su tali dati di fatto appare quindi chiaro quale sia stato il precetto deontologico violato a criterio del CNF: quello volto a contenere il ruolo defensionale nella audizione del “futuro-teste” nell’ambito della attività di acquisizione riservata, oggettiva e serena dei dati afferenti la “utilità” per il proprio assistito della eventuale sua indicazione nella controversia (art. 52 c. 1 CDF). Di converso essendo palese la esclusione, da tal lecito agire, di ogni strumentalizzazione di tale ruolo che sia perpetrata al fine di avvalersi di quei riservati colloqui per contestare la non veridicità della deposizione dal teste resa innanzi al Giudice.

E se tale è il precetto ragionevolmente individuato dal giudice disciplinare è poi immune da vizi logici l’aver ritenuto che la sua violazione venne in fatto perpetrata dal professionista incolpato: nella decisione in disamina infatti si salda alla valutazione di quella anomala, “partecipata”, indagine di rilevanza del futuro teste la valutazione della richiesta di offrire colleghi e segretarie di studio (e quindi la propria stessa parola di professionista) quali fonti dell’accertamento della falsità della testimonianza difforme.

Quel che la decisione del CNF ha inteso formulare, pur con la faticosa ed emendabile argomentazione in diritto che si è riferita, è la corretta delimitazione del compito del difensore nella “istruzione preliminare” delle proprie difese in sede civile, nel quale è compresa la attenta e cauta valutazione di utilità della indicazione del teste per le ragioni del proprio assistito ma dal quale è estraneo, oltre che l’intervento manipolatorio espressamente censurato al comma 1 dell’art. 52 del CDF, anche ogni tentativo di predisporre, al di fuori di ogni esigenza di riservatezza, accorgimenti per assicurare un risultato pratico (che infici o attenui la libertà del soggetto di testimoniare sui fatti).

Nel riferito quadro la decisione impugnata deve ritenersi immune da violazioni di legge e fondata su congrue e logiche valutazioni. L’assenza di contraddittori dispensa dal regolare le spese del giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

 

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