SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Sentenza 4 luglio 2012, n. 11139

Esposizione del fatto

Con ricorso del 26 agosto 2010 il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Palermo ha impugnato dinanzi al Consiglio nazionale forense la deliberazione del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Palermo che aveva iscritto nell’albo professionale il dott. I.A., quantunque egli avesse riportato condanna penale per falsità ideologiche commesse nell’anno 1996 durante l’esercizio della pratica forense.

II Consiglio nazionale forense, con decisione depositata il 9 settembre 2011, ha accolto il ricorso perché ha stimato che i fatti addebitati al dott. A., benché risalenti nel tempo, siano tali da compromettere tuttora il requisito della “condotta specchiatissima ed illibata” cui l’art. 17 del r.d. n. 1578 del 1933 subordina l’iscrizione nell’albo degli avvocati, non rilevando in contrario la circostanza che il predetto dott. A. abbia in seguito ottenuto a un provvedimento di riabilitazione penale.

Il dott. A. ha proposto ricorso per cassazione, denunciando vizi di motivazione della decisione impugnata.

Nessuno degli intimati ha svolto difese.

Ragioni di diritto della decisione

Il ricorso non è meritevole di accoglimento.

La valutazione operata dal Consiglio nazionale forense, se immune da vizi logici e giuridici, non può formare oggetto di sindacato da parte di questa Corte, la quale deve limitarsi a controllare l’esattezza e la congruità della decisione senza possibilità di sostituirsi al Consiglio nell’apprezzamento della rilevanza, ai fini deontologici, dei fatti ascritti al professionista (cfr. Cass. n. 20360 del 2007, n. 20160 del 2010 e n. 25932 del 2011).

Analogo principio dev’essere affermato con riguardo alla valutazione del requisito della “condotta specchiatissima ed illibata” che il Consiglio nazionale forense è chiamato a verificare ai fini dell’iscrizione nell’albo professionale.

La motivazione che, nel caso in esame, sorregge la decisione adottata non è affetta dai vizi d’illogicità che il ricorrente le addebita. Correttamente, infatti, il Consiglio nazionale forense ha distinto tra gli effetti penali di una condanna (così come di un provvedimento di irrogazione di pena a seguito di patteggiamento) e dell’eventuale riabilitazione, da un lato, e dall’altro l’accertamento dei fatti storici – qui, del resto, non contestati – sui quali quella condanna si è basata; ed altrettanto correttamente ha considerato come la valutazione deontologica sottesa al provvedimento d’iscrizione nell’albo operi su un piano diverso da quello del processo penale e della successiva riabilitazione.

Il giudizio negativo in ordine al requisito occorrente per l’iscrizione è stato pertanto espresso in modo del tutto autonomo, rispetto alle diverse pronunce dell’autorità giudiziaria cui sopra s’è fatto cenno, e la valutazione in base alla quale la passata condotta del dott. A. è apparsa ostativa alla sua iscrizione nel predetto albo – valutazione fondata sulla reiterazione dei comportamenti censurabili, sulla diretta inerenza di tali comportamenti ad aspetti propri dell’attività forense e sul rilievo che essi sono stati tenuti quando l’autore, benché ancora praticante, era ormai in età sufficientemente matura per avere piena consapevolezza della gravità del proprio agire – non appare né illogica né inadeguata. Aggiungasi che la conclusione cui il Consiglio nazionale è pervenuto non è in contraddizione con l’affermazione secondo la quale il professionista radiato per condanna penale può essere nuovamente iscritto se sia stato in seguito riabilitato ed abbia tenuto un’ottima condotta, perché nell’impugnata decisione è ben chiarito come, anche in tal caso, la riabilitazione operi quale condizione necessaria, ma non sufficiente, dal momento che il rinnovo dell’iscrizione pur sempre presuppone una valutazione della rilevanza deontologica dei fatti storici dei quali l’interessato si sia reso protagonista.

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.

Non occorre provvedere sulle spese di causa, non essendosi difesa la parte intimata.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso.

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