Il completamento funzionale implica uno stato di avanzamento nella realizzazione

Consiglio di Stato, Sezione sesta, Sentenza 8 giugno 2020, n. 3636.

La massima estrapolata:

Il completamento funzionale implica uno stato di avanzamento nella realizzazione tale da consentirne potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione.

Sentenza 8 giugno 2020, n. 3636

Data udienza 4 giugno 2020

Tag – parola chiave: Abusi edilizi – Condono – Diniego – Mancata ultimazione lavori entro il 31 marzo 1993 – Ordinanza di demolizione

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Sesta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 555 del 2013, proposto da
Ro. Di Va., rappresentata e difesa dagli avvocati Bi. Va., Fr. Ve. e An. Ca., con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia;
contro
Comune di Napoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Br. Ri., Gi. Da., An. An. e Fa. Ma. Fe. con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia e con domicilio eletto presso lo studio Gr. & As. s.r.l., in Roma, corso (…);
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania – Napoli Sezione Quarta n. 02236/2012, resa tra le parti, concernente un diniego di condono edilizio e un ordine di demolizione.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Napoli;
Visti tutti gli atti della causa;
Udita la relazione esposta dal Cons. Alessandro Maggio nella camera di consiglio del giorno 4 giugno 2020, svoltasi, ai sensi dell’art. 84, comma 5, del D.L.n. 18 del 17 marzo 2020, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto dalla circolare 13 marzo 2020, n. 6305 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa.
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con istanze nn. 8807 e 8808, entrambe del 31/3/1995, la sig.ra Ro. Di Va. ha chiesto al Comune di Napoli il condono edilizio (ex art. 39 della L. 23/12/1994, n. 724) in relazione a due manufatti a uso artigianale realizzati in assenza di titolo edilizio.
Le dette istanze sono state dichiarate improcedibili con determinazioni comunali 161 e 162 del 8/6/2000 sul presupposto del mancato riscontro, entro 90 giorni, alla richiesta di integrazione documentale inviata alla richiedente in data 22/12/1997.
I suddetti provvedimenti sono stati tuttavia annullati dal Consiglio di Stato con sentenza 27/3/2009, n. 1823.
In sede di remand l’amministrazione ha adottato le determinazioni nn. 167 e 168 in data 2/5/2011 con le quali, da una parte ha negato il condono per la mancata ultimazione dei lavori entro la data del 31/3/1993, e dall’altra ha ordinato la demolizione delle opere abusive.
Ritenendo tali ultime determinazioni illegittime, la sig.ra Di Va. le ha impugnate con ricorso al T.A.R. Campania – Napoli, il quale, con sentenza 14/5/2012, n. 2236 lo ha respinto.
Avverso la sentenza ha proposto appello la sig.ra Di Va..
Per resistere al ricorso si è costituita in giudizio l’intimata amministrazione comunale.
Con successive memorie le parti hanno meglio illustrato le rispettive tesi difensive.
All’udienza telematica del 4/6/2020 la causa è passata in decisione.
Coi primi due motivi l’appellante lamenta, rispettivamente, che il Tribunale avrebbe errato a:
a) respingere la censura con cui era stato dedotto che sulle istanze di condono edilizio si era formato il silenzio-assenso;
b) ritenere che le opere oggetto di condono non potessero considerarsi ultimate alla data del 31/12/1993.
Le due doglianze, entrambe infondate, si prestano a una trattazione congiunta.
Ai sensi del combinato disposto degli artt. 39 della L. 23/12/1994, n. 724 e 31 della L. 28/2/1985, n. 47 possono essere sanate le “… opere abusive che risultino ultimate entro il 31 dicembre 1993…”.
Ai fini della sanatoria “… si intendono ultimati gli edifici nei quali sia stato eseguito il rustico e completata la copertura, ovvero, quanto alle opere interne agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente”.
Relativamente alla nozione di completamento funzionale, operante con riguardo ai manufatti non destinati, come quello di specie, alla residenza, la giurisprudenza ha affermato che essa implica uno stato di avanzamento nella realizzazione tale da consentirne potenzialmente, e salve le sole finiture, la fruizione; in altri termini l’organismo edilizio, non soltanto deve aver assunto una sua forma stabile nella consistenza planivolumetrica (come per gli edifici, per i quali è richiesta la c.d. ultimazione “al rustico”, ossia intelaiatura, copertura e muri di tompagno), ma anche una sua riconoscibile e inequivoca identità funzionale che ne connoti con assoluta chiarezza la destinazione d’uso, occorrendo, all’uopo, che siano presenti le opere indispensabili a rendere effettivamente possibile l’utilizzazione a cui la costruzione è destinata (Cons. Stato, VI, 24/1/2020, n. 588; 9/12/2019, n. 8389; Sez. II, 14/1/2020, n. 339; Sez. V, 3/6/2013, n. 3034).
Nel caso di specie l’amministrazione ha escluso che alla data del 31/12/1993 i due manufatti, destinati a uso non residenziale, potessero considerarsi ultimati, in quanto funzionalmente non completati.
In relazione ad entrambi i fabbricati il Comune ha, infatti, affermato che: “Il capannone oggetto di condono, come si evince dalla documentazione di parte, trovavasi allo stato grezzo in quanto, oltre alle strutture portanti e copertura, era provvisto unicamente di parziali tompagnature perimetrali per un’altezza di mt 2,00; lo stesso, quindi, necessitava di tutte le restanti opere di completamento, consistenti nell’ultimazione delle tompagnature perimetrali, realizzazione delle tramezzature interne, dei servizi igienici, dell’impiantistica in generale, degli intonaci interni ed esterni, della pavimentazione di tuti gli ambienti, dei rivestimenti alle pareti dei servizi w.c. con posa in opera di tutti gli infissi interni ed esterni”.
Tenuto conto della descritta consistenza ontologica dei due manufatti, comprovata dagli atti di causa (si vedano in particolare gli allegati fotografici), deve ritenersi che correttamente il Comune prima, e il Tribunale poi, abbiano escluso che, alla data del 31/12/1993, gli stessi potessero dirsi funzionalmente completati.
E invero, entrambi risultavano privi delle opere indispensabili a rendere effettivamente possibile il riconoscimento delle caratteristiche tipologiche necessarie per individuarne la funzione.
Appurata la mancata ultimazione dei due fabbricati entro la data indicata dalla legge, deve escludersi che sulle istanze di condono edilizio a essi relative possa essersi formato il silenzi assenso.
Infatti, in base a un condivisibile orientamento giurisprudenziale, il silenzio assenso su una domanda di sanatoria edilizia può prodursi solo in presenza di tutti i requisiti, formali e sostanziali, per il suo accoglimento.
Ne consegue che a tal fine è necessario, tra l’altro, che le opere da sanare siano state ultimate entro la data prevista dalla legge (Cons. Stato, Sez. VI, 30/7/2019, n. 5384; 6/2/2019 n. 897; Sez. V, 20/8/2013 n. 4182).
Anche a voler prescindere dalle dirimenti considerazioni più sopra svolte, è, comunque, da escludere che sulle istanze di condono presentate dall’appellante possa essersi formato il silenzio assenso.
Infatti affinché l’inerzia dell’amministrazione nel provvedere sull’istanza di condono edilizio possa assumere il significato di un provvedimento di accoglimento tacito è necessario che sia avvenuto il pagamento dell’oblazione e degli oneri di concessione e che sia stata depositata tutta la documentazione normativamente richiesta (Cons. Stato, Sez. VI, 7/1/2020, n. 98; 6/2/2019, n. 897 e 18/9/2018, n. 5453; Sez. II, 18/7/2019, n. 5061).
Sennonché nella fattispecie tale essenziale condizione non si è verificata.
Difatti, dalla non contestata relazione istruttoria depositata dal Comune in ottemperanza all’ordinanza collegiale 1/8/2019 n. 5464, è emerso che:
a) non è stata prodotta né la documentazione atta a dimostrare l’avvenuto accatastamento, né la certificazione attestante l’idoneità statica delle opere;
b) salvo il versamento di un acconto, non sono stati pagati gli oneri concessori e, in relazione a una delle due pratiche non è stato integralmente corrisposto l’importo dovuto a titolo di oblazione.
Col terzo motivo si denuncia l’errore asseritamente commesso dal Tribunale nel non accogliere la censura con cui era stata dedotta l’illegittimità delle determinazioni impugnate per l’omissione di specifici adempimenti procedimentali.
In particolare non si sarebbero espressi sulle istanze né il responsabile del procedimento, né la commissione edilizia comunale.
Il mezzo di gravame è privo di pregio.
La circostanza che sulle richieste di sanatoria non si sia espresso il responsabile del procedimento è del tutto irrilevante, una volta appurato che, come nella specie, l’istruttoria non presenta carenze.
Quanto alla denunciata assenza del parere della Commissione edilizia comunale basta rilevare che in giurisprudenza è pacifico che il detto parere non è obbligatorio ai fini della definizione delle domande di condono edilizio, tenuto conto dell’assenza di una specifica previsione in tal senso e della specialità del procedimento in questione rispetto a quello ordinario di rilascio della concessione edilizia (cfr. ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 17/12/2013, n. 6042; 5/4/2012, n. 2038; Sez. IV, 12/11/2018, n. 6338; 12/10/2016, n. 4208; 12/5/2016, n. 1913, Sez. V, 29/10/2014, n. 5336).
Col quarto motivo si critica l’appellata sentenza nella parte in cui non ha accolto la censura con la quale era stato dedotto che, formatosi il silenzio assenso sull’istanza di completamento delle opere ex art. 35 della L. n. 47/1985, presentata dalla sig.ra Di Va. in data 20/7/2000, l’amministrazione non avrebbe potuto più negare il condono edilizio.
La doglianza è infondata.
Come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, l’art. 35, comma 14, della L. n. 46/1985 prevede espressamente che colui che richiede il condono edilizio, decorsi centoventi giorni dalla presentazione della domanda, possa procedere al completamento dell’opera abusiva sotto la propria responsabilità, il che implica la sua piena consapevolezza che la reiezione della domanda di sanatoria rende integralmente illegittime le opere completate.
E’ del resto è evidente che i lavori di completamento sono accessori alla struttura base, per cui la legittimità dei primi è strettamente subordinata a quella dei secondi e non viceversa.
Col quinto motivo si denuncia l’erronea reiezione del motivo con cui era stato dedotto che il comune, una volta ritenuti non sanabili i due manufatti come capannoni a uso artigianale, avrebbe dovuto comunque considerare gli stessi come tettoie e quindi concedere il condono sussistendone i presupposti.
La doglianza non merita accoglimento.
Nei procedimenti a istanza di parte, nella cui categoria si inquadra quello finalizzato al rilascio del condono edilizio, i limiti del potere di provvedere son strettamente segnati dall’oggetto della domanda, non essendo consentito all’amministrazione modificarne i contenuti.
Nella fattispecie le istanze di condono della sig.ra Di Va. si riferivano a due capannoni a uso artigianale, per cui il comune non poteva, sua sponte, pronunciarsi sulla sanabilità di manufatti tipologicamente differenti quali le tettoie.
Con gli ulteriori motivi di gravame, concernenti gli ordini di demolizione, il ricorrente deduce che il Tribunale avrebbe errato a:
a) ritenere che l’illegittimità degli avversati dinieghi di condono si rifletta sugli ordini di demolizione;
b) affermare l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 27 del D.P.R. 6/6/2001, n. 380, il quale opererebbe solo nel caso di “inizio” di opere senza titolo e unicamente ove queste ricadano in zona soggetta a vincolo di inedificabilità assoluta introdotto prima della loro esecuzione, presupposti questi insussistenti nel caso che occupa;
c) reputare l’amministrazione non tenuta a valutare la sussistenza di un danno ambientale e la possibilità di applicare una sanzione pecuniaria in luogo della demolizione;
d) asserire l’insussistenza di un particolare obbligo motivazionale in considerazione del lungo tempo trascorso dalla realizzazione delle opere e dell’affidamento ingenerato nell’interessato in ordine al mantenimento delle opere;
e) negare che gli ordini di demolizione dovessero essere preceduti dalla comunicazione di avvio del procedimento;
f) escludere la violazione dell’art. 41 del citato D.P.R. n. 380/2001 discendente dalla mancata approvazione, da parte della Giunta municipale, della valutazione tecnico-economica dell’intervento demolitorio.
Le doglianze così sinteticamente riassunte, tutte infondate, si prestano a una trattazione congiunta.
In presenza di opere edilizie eseguite in assenza di titolo abilitativo l’emanazione dell’ordine di demolizione assume, ai sensi dell’art. 27, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, carattere doveroso e vincolato senza che possa in alcun modo rilevare lo stato di avanzamento dei lavori o la natura della tutela gravante sull’area.
Né rileva che il vincolo fosse intervenuto a valle della realizzazione dei due manufatti, atteso che il medesimo era, comunque, presente quando l’amministrazione ha provveduto, per cui non era consentito prescinderne (arg. ex art. 32, comma 2, della L. n. 47/1985).
In ogni caso i due fabbricati, siccome eseguiti in assenza di titolo edilizio, sarebbero stati sanzionabili anche laddove il vincolo fosse stato inoperante, trovando in tal caso applicazione, la norma di cui all’art. 31, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, circostanza questa che rende ininfluente il fatto che l’amministrazione abbia invocato la diversa norma di cui all’art. 27, comma 2, atteso che ciò che conta è che il potere sussista e che dall’atto siano individuabili le ragioni (nella specie concernenti la rilevata mancanza del permesso di costruire) che hanno indotto l’amministrazione a provvedere (sull’irrilevanza dell’erronea citazione di norme nell’atto Cons. Stato, Sez. III, 18/7/2011, n. 4353; Sez. VI, 20/3/1996, n. 482; Sez. IV, 17/11/1981, n. 879; C.Si 21/11/1997, n. 551; Tribunale Sup. Acque, 2/5/1997, n. 29).
La constatata natura vincolata del provvedimento ripristinatorio esclude che la sua adozione sia subordinata all’esistenza di un danno ambientale.
Quanto all’invocata possibilità di sostituire la demolizione con una sanzione pecuniaria, è sufficiente osservare che la c.d. fiscalizzazione dell’abuso è consentita nelle sole ipotesi di cui agli artt. 34 e 38 del D.P.R. n. 380/2001 (Cons. Stato, Sez. VI, 19/7/2019, n. 5089; 5/1/2015, n. 6) che qui non ricorrono.
Contrariamente a quanto dedotto dall’appellante sulla legittimità degli avversati ordini di demolizione non può nemmeno influire il notevole tempo trascorso dalla commissione dell’illecito.
In base a un consolidato orientamento giurisprudenziale che il Collegio condivide, il lungo tempo trascorso dalla realizzazione dell’opera abusiva non è idoneo a radicare in capo al privato interessato alcun legittimo affidamento in ordine alla conservazione di una situazione di fatto illecita, per cui anche in tal caso l’ordine di demolizione assume carattere doveroso e vincolato e la sua emanazione non richiede alcuna motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso (Cons. Stato, A.P. 17/10/2017, n. 9, Sez. VI, 22/4/2020, n. 2557; 4/10/2019, n. 6720; 8/4/2019, n. 2292; 5/11/2018, n. 6233; 26/3/2018, n. 1893; 23/11/2017, n. 5472 e 5/1/2015, n. 13; Sez. II, 19/6/2019, n. 4184; Sez. IV, 11/12/2017, n. 5788).
Deve considerarsi, altresì, insussistente la prospettata violazione delle pretese partecipative.
Per pacifica giurisprudenza, che il Collegio condivide pienamente, i provvedimenti aventi natura vincolata, quali l’ordinanza di demolizione, non necessitano di previa comunicazione di avvio del procedimento, ciò in quanto non è consentito all’Amministrazione compiere valutazioni di interesse pubblico relative alla conservazione del bene (ex plurimis Cons. Stato, Sez. VI, 13/5/2020, n. 3036; 25/2/2019, n. 1281; Sez. V, 12/10/2018, n. 5887; Sez. IV, 27/5/2019, n. 3432; Sez. II, 29/7/2019, n. 5317 e 26/6/2019, n. 4386).
Non sussiste, poi, la prospettata violazione dell’art. 41, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001.
Occorre premettere che il testo originale dell’anzidetta norma era stato sostituito dall’art. 49-ter del D.L. 30/9/2003, n. 269, conv. con modificazioni, dalla L. 24/11/2003, n. 326.
Tale ultima norma è stata, però, dichiarata incostituzionale con sentenza della Corte Cost. 28/6/2004, n. 196, per cui, per effetto del c.d. principio di reviviscenza normativa (Cass. Civ., Sez. Lav., 9/11/2017, n. 26603) è tornata in vigore la precedente disposizione, la quale, al comma 1, stabilisce che: “In tutti i casi in cui la demolizione deve avvenire a cura del comune, essa è disposta dal dirigente o dal responsabile del competente ufficio comunale su valutazione tecnico-economica approvata dalla giunta comunale”.
Orbene, deve ritersi che la detta approvazione abbia una valenza meramente interna all’organizzazione comunale, essendo finalizzata a consentire un controllo da parte dell’organo collegiale sulle modalità di esecuzione dell’intervento, tenuto conto della possibilità di affidare i relativi lavori (anche a trattativa privata) e soggetti terzi (commi 2 e segg. del citato art. 41) e degli inevitabili riflessi finanziari dell’operazione sul bilancio dell’amministrazione.
Da quanto sopra esposto discende che la mancanza della “valutazione tecnico-economica approvata dalla Giunta comunale”, non è idonea a inficiare l’ordine di demolizione, sostanziandosi in una mera irregolarità .
La reiezione, infine, dei motivi diretti contro i dinieghi di condono esclude la sussistenza del dedotto vizio di illegittimità derivata.
L’appello va in definitiva respinto.
Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi od eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso.
Spese e onorari di giudizio, liquidati come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Condanna l’appellante al pagamento delle spese processuali in favore del comune appellato, liquidandole forfettariamente in complessivi Euro 3.000/00 (tremila), oltre accessori di legge.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 giugno 2020 con l’intervento dei magistrati:
Giancarlo Montedoro – Presidente
Diego Sabatino – Consigliere
Vincenzo Lopilato – Consigliere
Alessandro Maggio – Consigliere, Estensore
Dario Simeoli – Consigliere

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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