Cassazione 6

Suprema Corte di Cassazione

sezione III

sentenza  27 aprile 2016, n. 17181

Ritenuto in fatto

1. Il sig. B.S. ricorre per l’annullamento della sentenza del 27/10/2014 della Corte di appello di Brescia che, in parziale riforma di quella del 27/03/2014 resa dal Tribunale di quello stesso capoluogo all’esito di giudizio abbreviato, ha ridotto la pena a lui inflitta in primo grado nella misura di un mese e dieci giorni di reclusione e 133,00 euro di multa, confermando, nel resto, l’affermazione della sua responsabilità per il reato di cui all’art. 2, comma 1-bis, d.l. 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, per aver omesso di versare all’INPS le ritenute operate, a fini previdenziali e assistenziali, sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti nei mesi da giugno 2008 a febbraio 2009, per un importo complessivo pari ad Euro 16.000,00.
1.1. Con il primo motivo reitera, ai sensi dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., l’eccezione di nullità del decreto di citazione a giudizio sotto due profili: a) per il contrasto tra il “tempus commissi delicti” riportato nel capo di imputazione (dal 16 ottobre 2006 al 16 febbraio 2009) e quello contenuto nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all’art. 415-bis, cod. proc. pen. (dal 26 settembre 2006 al 23 aprile 2009); b) per la indeterminatezza dell’importo oggetto delle omissioni (“circa Euro 16.000,00”).
1.2. Con il secondo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., la illogicità della motivazione con cui la Corte di appello ha confermato il diniego di concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.
1.3. Con il terzo motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. e), cod. proc. pen., l’errata e/o contraddittoria motivazione in punto di negato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

Considerato in diritto

2. Il ricorso è infondato e deve essere respinto.
3. La genericità del capo di imputazione che vizia il decreto di citazione a giudizio rendendolo nullo ai sensi dell’art. 552, comma 2, cod. proc. pen. non può essere desunta dal confronto con il fatto descritto nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Non sono omogenei i termini di paragone, né una simile conclusione è avallata dal testo dell’art. 552, codice di rito. Qui (decreto di citazione diretta a giudizio) il fatto deve essere enunciato in “forma chiara e precisa”; lì (avviso di conclusione delle indagini preliminari) deve essere solo sommariamente enunciato.
3.1. Né potrebbe essere diversamente.
3.2. Il pubblico ministero esercita l’azione penale con il decreto di citazione diretta a giudizio e cristallizza la pretesa punitiva con l’imputazione in essa descritta. L’avviso di conclusione delle indagini preliminari, invece, ha funzione del tutto diversa essendo atto procedurale finalizzato a compulsare, nell’ambito delle indagini preliminari e prima dell’esercizio stesso dell’azione penale, un contraddittorio endo-procedimentale finalizzato proprio a mettere l’imputato nella condizione, se lo ritiene, di proporre argomenti, temi difensivi ed elementi di prova a discarico. Si tratta, dunque, di un atto il cui scopo resta quello di consentire al pubblico ministero di assumere le più ampie determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale, onde evitare – anche con la collaborazione del diretto interessato – inutili processi (art. 125, disp. att. c.p.p.) (si vedano, sul punto, Sez. 1, n. 11405 del 30/01/2004, Marastoni, Rv. 227820; Sez. 5, n. 28548 del 14/06/2007, Mitrano, Rv. 237568; cfr., altresì, Sez. 3, n. 43809 del 24/10/2014, Dolce).
3.3. È dunque fisiologico che il fatto descritto nel decreto di citazione a giudizio sia diverso da quello sommariamente enunciato nell’avviso di conclusione delle indagini; quel che conta è che non lo sia in modo radicale si che su di esso non v’è stato alcun reale ed effettivo contraddittorio.
3.4. Occorre infatti considerare che la possibilità per il pubblico ministero di modificare l’imputazione successivamente all’esercizio dell’azione penale, sia nel corso dell’udienza preliminare che nel dibattimento (artt. 423, 516 e 517, cod. proc. pen.), anche per fatti che risultavano noti già dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale stessa (Corte cost. sentenza n. 139 del 2015; Corte cost. sentenza n. 184 del 2014; Corte cost. sentenza n. 333 del 2009; Corte cost. sentenza n. 265 del 1994; Cass. Sez. 6, n. 18749 del 11/04/2014, Rv. 262614; Sez. U, n. 4 del 28/10/1998, Barbagallo, Rv. 212757), limita i casi nullità del decreto di citazione a giudizio (o della richiesta di rinvio a giudizio) ai soli casi in cui il fatto descritto nell’imputazione, rispetto a quello enunciato nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, non sia connesso o sia del tutto “nuovo” ai sensi dell’art. 518, cod. proc. pen., che denoti cioè un accadimento assolutamente difforme da quello contestato, naturalisticamente e giuridicamente autonomo (Sez. 6, n. 26284 del 26/03/2013, Tonietti, Rv. 256861; Sez. 5, n. 10310 del 25/08/1998, Capano, Rv. 211477; Sez. 2, n. n. 18868 del 10/02/2012, Osmenaj, Rv. 252822).
3.5. Nel caso di specie, il fatto per il quale è stata esercitata l’azione penale non è in alcun modo nuovo o diverso da quello oggetto di avviso di conclusione delle indagini preliminari poiché ricompreso nel più ampio arco temporale contestato nell’avviso stesso ed in relazione al quale l’imputato è stato posto nella condizione di difendersi.
3.6. L’eccezione è infondata sotto il secondo profilo, quello relativo all’indicazione sommaria della somma non versata (circa 16.000,00 Euro).
3.7. Questa Corte ha più volte affermato il principio che non sussiste alcuna incertezza sull’imputazione quando il fatto sia contestato nei suoi elementi strutturali e sostanziali in modo da consentire un completo contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa, non essendo necessaria un’indicazione assolutamente dettagliata dell’imputazione stessa (Sez. 2, n. 16817 del 27/03/2008, Muro, Rv. 239758; Sez. F. n. 43481 del 07/08/2012, Ecelestino, Rv. 253582; Sez. 5, n. 6335 del 18/10/2013, Morante).
3.8. Nel caso di specie il fatto contestato può essere logicamente scomposto nei seguenti elementi: a) la condotta (l’aver effettuato le ritenute sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti e l’averne omesso il versamento all’INPS); b) l’oggetto della condotta stessa (le ritenute contributive); c) il luogo (Brescia) e il tempo della condotta (le mensilità retributive di riferimento).
3.9. Il fatto da cui l’imputato è chiamato a difendersi è dunque chiaro e non necessita di ulteriori precisazioni in termini quantitativi delle somme non versate, trattandosi di dati facilmente evincibili dagli atti e, sopratutto, a lui noti per essergli stati necessariamente contestati ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2, commi 1-bis e 1-ter, d.l. n. 463 del 1983, cit..
3.10. Quel che conta, dunque, è che l’imputato, a fronte di una contestazione che naturalmente sia già di per se sufficientemente chiara e precisa, abbia la possibilità di contrastare l’accusa accedendo agli atti messi a sua disposizione che certamente concorrono a specificare, riempire di contenuti e collocare nella sua dimensione reale il fatto contestato.
3.11. La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è pervenuta a conclusioni non dissimili. Il diritto dell’imputato di essere informato, in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico è sancito anche dall’art. 6, comma 3, lett. a), Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
3.12. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha precisato che tale diritto è funzionale a quello di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare le proprie difese, diritto garantito dall’art. 6, comma 3, lett. b), Convenzione E.D.U., e del più generale diritto a un processo equo, sicché l’informazione data deve contenere gli elementi necessari per permettere all’imputato di preparare le proprie difese (Corte E.D.U. Ciardelli contro Italia, 15/12/1998; Mattoccia contro Italia, 25/07/2000; Drassich contro Italia, 11/12/2007): “L’ampiezza dell’informazione dettagliata prevista da questa norma – ha spiegato la Corte (Previti contro Italia, 08/12/2009) – varia a seconda delle particolari circostanze della causa; tuttavia, l’accusato deve in ogni caso poter disporre di elementi sufficienti per comprendere pienamente le accuse elevate contro di lui per poter preparare convenientemente la sua difesa. A tale proposito, l’adeguatezza delle informazioni deve essere valutata in relazione al comma b) del paragrafo 3 dell’articolo 6, che riconosce ad ogni persona il diritto di disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie per preparare la sua difesa (Mattoccia c. Italia, no 23969/94, 60, CEDH 2000-IX). La Corte ricorda anche che l’informazione prevista dall’articolo 6 3 a) della Convenzione non deve necessariamente riportare gli elementi di prova sui quali si fonda l’accusa (X c. Belgio, no 7628/76, decisione della Commissione del 9 maggio 1977, Decisions et Rapports (DR) 9, pp. 169-171) (….) per loro stessa natura, i capi d’imputazione sono redatti in maniera sintetica e le precisazioni relative alla condotta ascritta risultano normalmente dagli altri documenti del processo, quali l’ordinanza di rinvio a giudizio e gli atti contenuti nel fascicolo della procura messo a disposizione della difesa”.
3.13.Anche alla luce della Convenzione E.D.U., come interpretata della Corte E.D.U., non è necessario che il capo di imputazione riporti gli importi non versati e certamente non in modo esasperatamente preciso quando ciò non sia strettamente necessario alla comprensione del tenore dell’accusa e non impedisca, in concreto, il fattivo esercizio del diritto di difesa.
4. Il secondo motivo è totalmente infondato poiché presuppone che il vizio di motivazione della sentenza di primo grado non possa essere emendato dal giudice dell’appello.
4.1. Anche a voler ritenere che il giudice di primo grado, nel rigettare la richiesta di sospensione condizionale della pena, avesse erroneamente indicato il nome di altra persona, ciò non precludeva alla Corte di appello di disattendere, con motivazione propria, ancorché adesiva a quella del Tribunale, la richiesta di concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena. Quel che conta, insomma, è il presupposto di fatto del giudizio (la non incensuratezza dell’imputato) la cui sussistenza il ricorrente non contesta, ma ammette.
4.2. È perciò inutile sforzo dialettico chiedersi se il tribunale avesse davvero voluto riferirsi all’imputato nel negargli il beneficio, piuttosto che alla persona erroneamente citata in sentenza, poiché l’eventuale vizio di motivazione della sentenza di primo grado non ha comunque infettato quella dell’appello.
4.3. Così come è inutile insistere sul fatto che la Corte di appello ha valorizzato inesistenti precedenti successivi al reato per il quale si procede, poiché tale argomento, avuto riguardo all’economia del provvedimento impugnato, non è decisivo alla luce, come detto, degli incontestati precedenti penali antecedenti al fatto di cui pure la sentenza fa menzione per negare la sospensione condizionale della pena e le circostanze attenuanti generiche.
5. A non diversi rilievi si espone il terzo motivo di ricorso, avendo motivatamente (ed insindacabilmente) disatteso, i Giudici distrettuali, la richiesta di concessione delle circostanze attenuanti generiche in base ai precedenti dell’imputato.
5.1. Non possono avere ingresso, in questa sede, le sollecitazioni ad una diversa valutazione dei fatti (crisi economica) e dei comportamenti processuali (la scelta del rito abbreviato) che, nell’ottica difensiva, avrebbero dovuto spingere la Corte di appello ad un atteggiamento più benevolo nei confronti dell’imputato. Si tratta di argomentazioni, in parte di natura fattuale, che vengono proposti inammissibilmente quale metro di giudizio diretto da parte di questa Corte di legittimità; in diritto, non può non evidenziarsi che l’accesso al rito abbreviato comporta di per sé una necessaria riduzione premiale della pena che non ne può automaticamente giustificare una seconda.
5.2. In ogni caso questa Corte di cassazione deve ribadire, ancora una volta, il proprio pacifico orientamento secondo il quale “in tema di attenuanti generiche, posto che la ragion d’essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio” (Sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, Gennuso, Rv. 192381; nonché Sez. 5, 7562 del 17/01/2013, La Selva, Rv. 254716).
5.3. La concessione o il diniego delle attenuanti generiche rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio, positivo o negativo che sia, deve essere bensì motivato ma nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero dello stesso giudice circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo, non essendo necessaria l’analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti poiché è sufficiente, in una visione globale di ogni particolarità del caso, dare l’indicazione di quelli ritenuti rilevanti e decisivi ai fini della concessione o del diniego, rimanendo implicitamente disattesi e superati tutti gli altri, pur in carenza di stretta contestazione (così, in motivazione, Sez. 3, n. 19639 del 27/01/2012, Gallo; si veda anche Sez. 5, n. 7562 del 17/01/2013, La Selva).
5.4. Il ricorso deve pertanto essere respinto, con conseguente condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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