Impianti zootecnici intensivi e la realizzazione di nuovi impianti

Consiglio di Stato, Sentenza|14 marzo 2022| n. 1761.

Impianti zootecnici intensivi e la realizzazione di nuovi impianti.

L’adito Collegio di Palazzo Spada, nella decisione qui in esame, osserva come, nel rendere il giudizio di valutazione di impatto ambientale, l’amministrazione eserciti un’amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti; la natura schiettamente discrezionale della decisione finale risente dunque dei suoi presupposti sia sul versante tecnico che amministrativo. Quanto alle posizioni soggettive delle persone e degli enti coinvolti nella procedura esse sono qualificabili in termini di interesse legittimo ed è assodato da un consolidato orientamento giurisprudenziale che le relative controversie non rientrano nel novero delle tassative ed eccezionali ipotesi di giurisdizione di merito sancite oggi dall’articoli 134 Dlgs n. 104/2010. Il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici dell’amministrazione può svolgersi attraverso la verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni compiute da quest’ultima, sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo; il controllo del Ga sulle valutazioni discrezionali deve essere svolto extrinsecus, nei limiti della rilevabilità ictu oculi dei vizi di legittimità dedotti, essendo diretto ad accertare il ricorrere di seri indici di invalidità e non alla sostituzione dell’amministrazione. E quindi, secondo il Consiglio di Stato si ha che: la sostituzione, da parte del Ga, della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione costituisce ipotesi di sconfinamento vietato della giurisdizione di legittimità nella sfera riservata alla Pa, quand’anche l’eccesso in questione sia compiuto da una pronuncia il cui contenuto dispositivo si mantenga nell’area dell’annullamento dell’atto; in base al principio di separazione dei poteri sotteso al nostro ordinamento costituzionale, solo l’amministrazione è in grado di apprezzare, in via immediata e diretta, l’interesse pubblico affidato dalla legge alle sue cure; conseguentemente, il sindacato sulla motivazione delle valutazioni discrezionali: deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto acquisiti; non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa; deve tenere distinti i profili meramente accertativi da quelli valutativi (a più alto tasso di opinabilità) rimessi all’organo amministrativo, potendo esercitare più penetranti controlli, anche mediante c.t.u. o verificazione, solo avuto riguardo ai primi. Il sindacato del G.A. nella materia qui in esame è, pertanto, necessariamente limitato alla manifesta illogicità e incongruità, al travisamento dei fatti o a macroscopici difetti di istruttoria ovvero quando l’atto sia privo di idonea motivazione.

Sentenza|14 marzo 2022| n. 1761. Impianti zootecnici intensivi e la realizzazione di nuovi impianti

Data udienza 10 febbraio 2022

Integrale

Tag- parola chiave: Allevamenti – Impianti zootecnici intensivi – Realizzazione di nuovi impianti – Tutela dell’ambiente – Procedimento amministrativo – Partecipazione procedimentale

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9335 del 2021, proposto dai signori Su. Do. ed altri, To. Mo., sia in proprio sia in qualità di titolare dell’omonima impresa individuale, Mi. D’E., anche in qualità di titolare dell’omonima impresa individuale, Lu. Zo., sia in proprio sia in qualità di legale rappresentante della Soc.Agricola l’O. e il tu. Gi. di Zo. Lu. & C., Ma. Zo. e Gi. Zo., sia in proprio sia in qualità di legali rappresentanti della Soc.agr. Zo. di Zo. Gi. e Ma. & C., Gi. Pi., sia in proprio sia in qualità di titolare dell’omonima impresa individuale, An. Am., sia in proprio sia in qualità di legale rappresentante della Tr. Ca. s.r.l., rappresentati e difesi dagli avvocati Fa. Ci. e Gi. Gr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Fa. Ci. in Roma, via (…);
contro
la Regione Emilia-Romagna, in persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ga. Pu. e Cl. Me., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato An. Ma. in Roma, via (…);
l’Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna – ARPAE, in persona del rappresentante legale pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Fa. e Pa. On., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Fe. Gu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, con domicilio eletto presso lo studio del medesimo avvocato in Bologna, via (…);
Unione (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Fr. Mi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, con domicilio eletto presso lo studio del medesimo avvocato in Bologna, via (…);
Ministero della cultura e Ministero della difesa, ciascuno in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliato in Roma, via (…);
Azienda Unità Sanitaria Locale (AUSL) della Romagna, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio;
la Provincia di Forlì -Cesena, in persona del rappresentante legale pro tempore, non costituita in giudizio.
nei confronti
della Società Ag. Ci. Ve. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati En. Lu. e Fi. Lu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato En. Lu. in Roma, via (…).

per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, sezione prima, n. 756 del 18 agosto 2021, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Emilia-Romagna, dell’Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia-Romagna, del Comune di (omissis), della Società Ag. Ci. Ve. s.r.l., dell’Unione (omissis), del Ministero della cultura e del Ministero della difesa;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 10 febbraio 2022 il consigliere Claudio Tucciarelli e uditi per le parti gli avvocati Gi. Gr., Fa. Ci., Fe. Gu. – per sé e per delega dell’avvocato Fr. Mi. – Gi. Fa., Ga. Pu., Cl. Me. ed En. Lu..
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

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FATTO

1. L’oggetto del presente giudizio è costituito:
a) dalla delibera della Giunta Regionale dell’Emilia-Romagna n. 1760 del 30 novembre 2020, con cui la Regione ha adottato il “Provvedimento Autorizzativo Unico Regionale” (PAUR), relativo al “Progetto di demolizione e ricostruzione di fabbricati destinati all’allevamento avicolo”, presentato dalla Società Ag. Ci. Ve. S.r.l. e ubicato nel Comune di (omissis);
b) dai provvedimenti, atti autorizzativi, assensi e nulla osta “compresi” in tale provvedimento unico tra cui il Provvedimento di Valutazione di impatto ambientale – VIA positiva adottato dalla Giunta Regionale all’esito del verbale conclusivo della Conferenza di servizi condotta dall’Agenzia Regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia dell’Emilia Romagna – ARPAE, l’Autorizzazione integrata ambientale – AIA rilasciata da ARPAE, la concessione di derivazione idrica rilasciata da ARPAE, il permesso di costruire con relativa convenzione rilasciato dal Comune di (omissis) e ogni altro atto, parere e nulla osta con efficacia esterna comunque compreso nel PAUR;
– dal Rapporto ambientale della procedura di VIA, redatto da ARPAE e approvato dalla Conferenza di servizi, avente valore di verbale conclusivo e decisione motivata della Conferenza di servizi;
– da tutti gli atti assunti nella Conferenza di servizi decisoria e dalla preliminare Conferenza di servizi istruttoria, e relativi verbali, tra cui la dichiarazione ARPAE di completezza della pratica del 16 maggio 2019 e la decisione ARPAE del 27 aprile 2020 di convocare la Conferenza di servizi decisoria senza previa ripubblicazione del progetto;
– da tutti gli atti, pareri, delibere e nulla osta emessi dentro e fuori dalla conferenza di servizi e funzionali al perfezionamento della procedura avviata dalla società Ci. Ve. s.r.l. tra cui, se ritenuto di valore provvedimentale, il parere reso dall’Unione (omissis) in data 20 luglio 2020 circa l’applicazione dell’art. 5.7 del RUE al progetto della società Ci. Ve. da realizzarsi in (omissis);

 

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– dalla concessione edilizia in sanatoria/condono n. 2257 rilasciata dal Comune di (omissis) il 14 febbraio 2014;
– dalla delibera della Giunta Regionale n. 1795/2016 nella parte in cui, in attuazione degli artt. 14, 15 e 16 della legge regionale n. 13 del 2015, ha attribuito ad ARPAE la competenza al rilascio dell’AIA e alla gestione del relativo procedimento;
– dalle delibere della Giunta Regionale n. 1795/2016, n. 1692/2017 e n. 1071/2018, nella parte in cui, in attuazione degli artt. 15 e 16 della legge regionale n. 13 del 2015 e dell’art. 7.2 della legge regionale n. 4 del 2018, hanno attribuito ad ARPAE i poteri in materia di conduzione del procedimento di VIA fino alla determinazione conferenziale conclusiva e alla proposta di deliberazione della Giunta;
– dalla determina dirigenziale regionale n. 20138 del 13 dicembre 2017, nella parte in cui ha delegato ai dirigenti di ARPAE i compiti di “Responsabile del procedimento unico” di VIA e di “Rappresentante unico ai fini dell’espressione della posizione dell’amministrazione sulle decisioni da assumersi nell’ambito della relativa conferenza di servizi” di VIA, spettanti al VIPSA;
– per quanto occorrer possa, dalla Scheda “041_459” del RUE vigente nel territorio di (omissis), relativa all’immobile della controinteressata, se interpretata nel senso di attribuire ai manufatti dell’ex allevamento dismesso la qualifica di “allevamento esistente” ai fini dell’art. 5.7 del RUE.
2. La vicenda controversa può essere così sintetizzata.
La Società Ag. Ci. Ve. S.r.l. ha presentato un progetto di recupero di un complesso di nove capannoni, abbandonati da alcuni decenni e adibiti sino ai primi anni ’80 del secolo scorso ad allevamento avicolo. Il complesso è posto in zona a destinazione ad “allevamento zootecnico intensivo”. Il progetto presentato dalla Società Ag. Ci. Ve. S.r.l. consisterebbe nella trasformazione del compendio tanto sul piano edilizio ed urbanistico, quanto e soprattutto sul piano produttivo. La Regione ha quindi emesso il provvedimento autorizzativo unico regionale (PAUR), comprensivo degli assensi e nulla osta sopra descritti.
3. I ricorrenti in primo grado, odierni appellanti, alcuni in qualità di proprietari di immobili, altri di titolari di imprese agricole poste nelle immediate vicinanze dell’intervento, hanno lamentato l’alterazione del territorio e dell’ambiente in modo grave e difficilmente reversibile.

 

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A sostegno del ricorso in primo grado, corredato da istanza cautelare, hanno dedotto articolati motivi, così riassumibili:
I) (da pag. 16 a pag. 25 del ricorso in primo grado) incompetenza, illegittimità derivata dalla illegittimità costituzionale degli artt. 15-16 della legge regionale n. 13 del 2015 e dell’art. 7 della legge regionale n. 4 del 2018, per violazione dell’art. 117, primo comma, lettera s), Cost. e relative norme interposte (decreto-legge n. 496/1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 61/1994, e d.lgs. n. 132/2016). In particolare, il procedimento di VIA svolto ai sensi della legge regionale n. 4/2018 sarebbe contraddistinto dall’assunzione da parte di ARPAE di compiti di amministrazione attiva, in violazione dei principi affermati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, tanto che la legge regionale n. 4/2018, unitamente alla legge regionale n. 13/2015, poste a fondamento del procedimento in contestazione, sarebbe costituzionalmente illegittima per violazione della competenza statale esclusiva in materia ambientale, cui i ricorrenti hanno fatto conseguire istanza di rimessione alla Corte costituzionale;
II) (da pag. 26 a pag. 35 del ricorso in primo grado) violazione dell’art. 27-bis, comma 5, del d.lgs. n. 152/2006, dell’art. 18, comma 1, della legge regionale n. 4/2018, dell’art. 6, commi 4 e 6, e del 16° Considerando della Direttiva 2011/92/UE; eccesso di potere per difetto assoluto di motivazione. In particolare, risulterebbe elusa dall’Amministrazione la partecipazione procedimentale garantita anche dalla indicata direttiva UE, risultando il progetto pubblicato privo degli elementi sostanziali fondamentali, mentre sarebbe stata necessaria la pubblicazione di un nuovo avviso al fine di consentire l’effettiva partecipazione al processo decisionale;
III) (da pag. 35 a pag. 47 del ricorso in primo grado) violazione dell’art. 5.7, comma 2, del Regolamento urbanistico intercomunale – RUE, eccesso di potere per falso supposto di fatto e di diritto e difetto di istruttoria. In particolare, il progetto autorizzato sarebbe radicalmente in contrasto con l’art. 5.7 del RUE il quale contiene un divieto generale di nuovi allevamenti intensivi nel territorio rurale, mitigato dalla possibilità di mantenere quelli “esistenti” e di ampliare “la capacità produttività esistente” fino al 20%. Infatti, l’allevamento in questione non potrebbe definirsi “esistente”, come confermato nel 2015 dallo stesso Comune di (omissis) in sede di approvazione della variante al P.R.G. laddove ha affermato che l’immobile non poteva considerarsi allevamento esistente né essere in alcun modo riattivato; a dire di parte ricorrente la nozione di “allevamento esistente” andrebbe riferita unicamente all’attività e non all’edificio, peraltro da tempo allo stato di mero rudere, risultando del tutto illegittima la pretesa di realizzare surrettiziamente allevamenti intensivi vietati dal RUE nel territorio agricolo;

 

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IV) (da pag. 47 a pag. 51 del ricorso in primo grado) violazione degli artt. 11 e 79 del P.T.C.P. di Forlì Cesena, violazione dei principi generali in tema di disciplina degli allevamenti intensivi “incongrui”. In particolare, secondo il P.T.C.P. l’ampliamento sarebbe subordinato al rispetto del parametro del 20% della “capacità produttiva esistente” quale limite massimo per gli ampliamenti, mentre sarebbe di fatto impossibile sapere quale fosse tale capacità, risalente nel tempo, di fatto oggi pari a zero, trattandosi di un’attività del tutto nuova;
V) (da pag. 51 a pag. 56 del ricorso in primo grado) violazione dell’art. 5.7 del RUE e degli artt. 11 e 79 del P.T.C.P. sotto altro diverso profilo, eccesso di potere per falso supposto di fatto e di diritto e difetto di istruttoria. In particolare, anche a voler ritenere l’impianto in contestazione come “esistente”, esso sarebbe annoverabile per caratteristiche e dimensioni come nuova opera soggetta alle regole edilizie e ambientali vigenti al momento della riedificazione, e non ristrutturazione, con mutamento del sedime e della volumetria;
VI) (da pag. 56 a pag. 58 del ricorso in primo grado) violazione dell’art. 5.7, comma primo, del RUE, in combinato disposto con l’art. 3 del t.u. in materia di edilizia, sotto altro diverso profilo: posto che il progetto autorizzato prevede la demolizione e ricostruzione con diversa sagoma, volume e sedime in area vincolata ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, esso sarebbe annoverabile quale intervento di “nuova costruzione”, da ritenersi in contrasto con il divieto di nuovi allevamenti intensivi stabilito dall’art. 5.7 del RUE;
VII) (da pag. 58 a pag. 59 del ricorso in primo grado) violazione dell’art. 32 della legge n. 47/1985 in relazione all’art. 5.1.3 del RUE. In particolare, e in subordine, il complesso edilizio in questione sarebbe in parte abusivo, risultando il condono edilizio ottenuto nel 2014 illegittimo in quanto privo dell’autorizzazione paesaggistica, con conseguente illegittimità dell’autorizzazione unica regionale;
VIII) (da pag. 59 a pag. 62 del ricorso in primo grado) violazione dell’art. 5.7 del RUE ed eccesso di potere per difetto di istruttoria e vizio di motivazione sotto altro diverso profilo. In particolare, la società proponente non avrebbe in alcun modo documentato la consistenza produttiva dell’allevamento avicolo dismesso a metà degli anni ’80, non essendo consentita una stima ipotetica di quello che si sarebbe potuto allevare ma non si è mai allevato.

 

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Con i successivi motivi hanno contestato le valutazioni ambientali eseguite in sede di VIA, e precisamente:
IX) (da pag. 62 a pag. 65 del ricorso in primo grado) eccesso di potere per difetto di istruttoria e vizio di motivazione in merito agli impatti ambientali del progetto rispetto alla gestione degli effluenti di allevamento. In particolare, in sede di VIA vi sarebbe stata una grave sottovalutazione degli effetti del nuovo impianto sulla salute umana, senza considerare tra l’altro gli effetti della fase di stoccaggio e stabulazione della pollina;
X) (da pag. 66 a pag. 75 del ricorso in primo grado) eccesso di potere per difetto di istruttoria e vizio di motivazione in merito agli impatti ambientali del progetto rispetto alle matrici suolo ed acqua. In particolare, non sarebbero stati adeguatamente considerati in sede di VIA i rischi derivanti dalle operazioni di idrolavaggio dei capannoni e dello smaltimento delle acque di lavaggio nonché dalla gestione delle acque di pioggia compresa l’interazione tra le acque meteoriche e le dust chambers;
XI) (da pag. 75 a pag. 76 del ricorso in primo grado) eccesso di potere per difetto di istruttoria e vizio di motivazione in merito agli impatti ambientali del progetto rispetto alle coltivazioni circostanti. In particolare, lo studio di impatto atmosferico si baserebbe su un fattore di emissione dell’ammoniaca sottostimato e valutato soltanto ai fini della salute umana e non sull’ambiente rurale circostante, che sarebbe danneggiato dalle alte concentrazioni di ammoniaca e PM10;
XII) (da pag.76 a pag. 79 del ricorso in primo grado) eccesso di potere per difetto di istruttoria e vizio di motivazione in merito alla valutazione delle emissioni. In particolare, le emissioni atmosferiche dell’impianto progettato non rispetterebbero tutte le normative e i valori soglia attualmente vigenti.
3.1. Si sono costituiti nel giudizio di primo grado il Comune di (omissis), l’Unione (omissis), Ag. Ci. Ve. s.r.l., l’ARPAE, la Regione Emilia-Romagna.
3.2. Con ordinanza n. 127 dell’11 marzo 2021, il T.a.r. per l’Emilia-Romagna, sezione prima, ha respinto la domanda incidentale cautelare.
3.3. In prossimità della trattazione nel merito, le parti hanno depositato memorie e documentazione.

 

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4. L’impugnata sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, sezione prima, n. 756 del 18 agosto 2021:
4.1.) ha rigettato l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione e/o interesse, sollevata in giudizio alla luce del criterio della vicinitas (tale capo non è stato impugnato);
4.2.) ha rigettato il primo motivo, alla stregua del quadro normativo regionale e dei principi elaborati dalla sentenza n. 132/2017 con cui la Corte costituzionale ha censurato l’art. 16 della legge della Regione Molise n. 4 del 2016, per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., affermando la necessità di separazione delle funzioni tecnico-scientifiche di consulenza e controllo, attribuite alle suddette agenzie, dalle funzioni della c.d. amministrazione attiva; conseguentemente ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale (posta a fondamento del motivo), degli artt. 15 e 16 della legge regionale n. 13/2015 e dell’art. 7 della legge regionale n. 4/2018, sollevata per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., e relative norme interposte (decreto-legge n. 496/1993, convertito, con modificazioni, dalla n. 61/1994, e d.lgs. n. 132/2016) in tema di competenze attribuite all’ARPAE;
4.3.) ha rigettato il secondo motivo, alla luce di quanto previsto dalla direttiva 2011/92/UE e dall’art. 27-bis del d.lgs. n. 152/2006 sugli obblighi di consultazione pubblica dei progetti soggetti a VIA di competenza regionale;
4.4.) ha rigettato il terzo, quarto, quinto e ottavo motivo, incentrati su asseriti vizi di carattere urbanistico – edilizio, con cui i ricorrenti lamentano, in particolare, la violazione dell’art. 5.7 del RUE che prevedrebbe un generale divieto di nuovi allevamenti intensivi nel territorio rurale e consentirebbe di intervenire solamente sugli allevamenti “esistenti”;
4.5.) ha rigettato il sesto motivo del ricorso, alla luce dell’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380/2001, che consente la demolizione e ricostruzione di un edificio esistente, anche eventualmente crollato o demolito, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza, con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche. Inoltre, l’autorizzazione paesaggistica è stata rilasciata il 14 settembre 2020 dal Comune di (omissis) su parere favorevole della Soprintendenza;
4.6.) ha dichiarato irricevibile il settimo motivo, in quanto il condono edilizio era stato rilasciato nel 2014, sì da essersi definitivamente consolidato, non potendo nemmeno i titoli a sanatoria essere soggetti sine die a impugnativa giurisdizionale;

 

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4.7.) ha rigettato i motivi di gravame dal nono al dodicesimo, volti a censurare le valutazioni discrezionali dell’Amministrazione sulla VIA in quanto:
a) l’amministrazione esercita un’amplissima discrezionalità che non si esaurisce in una mera valutazione tecnica;
b) non sarebbe dunque possibile uno scrutinio effettivo e pieno delle censure ambientali e tecnico scientifiche dedotte con il ricorso;
c) l’utilizzo agronomico della pollina deve essere regolamentato in sede di AIA, come effettuato, e non già in sede di VIA, e risulta irrilevante la stessa gestione agronomica degli effluenti;
d) le doglianze sull’asserita erronea gestione delle acque di lavaggio dei capannoni dell’impianto lambiscono il merito delle valutazioni effettuate, in carenza di specifiche disposizioni tecniche applicabili e tenuto conto che la normativa di settore privilegia la pulizia a secco rispetto a quella idrica;
e) quanto alla gestione delle acque piovane sarebbe dirimente il rilievo per cui nelle superfici esterne impermeabili dell’allevamento non vengono svolte attività ricomprese nella direttiva regionale in argomento; inoltre, in sede di AIA l’ARPAE aveva dettato puntuali prescrizioni, volte a evitare inquinamenti;
f) è da escludere che i valori di concentrazione di ammoniaca e PM10 possano produrre un significativo impatto sul contesto agricolo colturale circostante;
g) relativamente alle emissioni atmosferiche provocate dall’allevamento, non sarebbe preclusa l’apertura di nuove attività produttive ma sarebbero posti meri obiettivi programmatici;
h) sarebbe legittimato l’utilizzo da parte della controinteressata – in base a dati recenti e a ulteriori elementi – di un fattore di emissione di ammoniaca inferiore rispetto a quello richiesto da ARPAE in sede di istruttoria, per cui il fattore di emissione utilizzato non appare manifestamente sottostimato; i) lo studio di impatto atmosferico non avrebbe tenuto in considerazione le PM 25 né il metano in quanto il BREF comunitario le reputa non significative; i) sarebbe indimostrato e opinabile che la soluzione in sede progettuale relativa alle dust chambers non faciliti la dispersione in atmosfera;
l) sarebbe infondata la doglianza secondo cui la soglia olfattiva minima dell’ammoniaca dichiarata dalla controinteressata sarebbe sottostimata, alla luce delle linee guida utilizzate in argomento.

 

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La sentenza ha quindi respinto il ricorso e compensato le spese di lite.
5. I ricorrenti in primo grado hanno quindi proposto appello, corredato da istanza cautelare, affidato ai seguenti motivi:
I) (da pag. 10 a pag. 14 del ricorso in appello) error in iudicando, incompetenza, illegittimità derivata dalla illegittimità costituzionale degli artt. 15 e 16 della legge regionale n. 13/2015 e dell’art. 7 della legge regionale n. 4/2018 per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. e relative norme interposte (decreto-legge n. 496/1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 61/1994, e d.lgs. n. 132/2016);
II) (da pag. 14 a pag. 18 del ricorso in appello) error in iudicando, violazione dell’art. 27-bis, comma 5, del d.lgs. n 152/2006, dell’art. 18, comma 1, della legge regionale n. 4/2018, dell’art. 6, commi 4 e 6, e del 16° considerando della direttiva 2011/92/UE, eccesso di potere per difetto assoluto di motivazione;
III) (da pag. 18 a pag. 32 del ricorso in appello) error in iudicando, erroneità della sentenza appellata nella parte in cui ha respinto i motivi di gravame di carattere urbanistico-edilizio attinenti alla violazione dell’art. 5.7 del RUE del Comune di (omissis); tale motivo è ulteriormente articolato in quattro censure nei confronti della sentenza impugnata:
III.1) violazione dell’art. 5.7, comma 2, del RUE, violazione degli artt. 11 e 79 del P.T.C.P. di Forlì Cesena, eccesso di potere per erroneità dei presupposti di fatto e di diritto, nonché per difetto di istruttoria;
III.2) violazione dell’art. 5.7 del RUE ed eccesso di potere per difetto di istruttoria e vizio di motivazione sotto altro e diverso profilo;
III.3) violazione dell’art. 5.7 del RUE e degli artt. 11 e 79 P.T.C.P. sotto altro diverso profilo, violazione dell’art. 5.7, comma 1, del RUE anche in combinato disposto con l’art. 3 del t.u. edilizia, eccesso di potere per erroneità dei presupposti di fatto e di diritto e difetto di istruttoria;
III.4) violazione dell’art. 32 della legge n. 47/1985 in relazione all’art. 5.1.3 del RUE;
IV) (da pag. 10 a pag. 14 del ricorso in appello) error in iudicando, eccesso di potere per difetto di istruttoria e vizio di motivazione in merito a molteplici profili di impatto ambientale del progetto.
6. Si è costituita nel presente giudizio l’ARPAE, che ha poi depositato memoria il 29 novembre 2021. In pari data si sono costituiti, depositando memorie, il Comune di (omissis), la Regione Emilia-Romagna, la società Ag. Ci. Ve. s.r.l., l’Unione (omissis). Nella medesima data si sono costituiti il Ministero della cultura e il Ministero della difesa.
7. Il 10 gennaio 2022, gli appellanti hanno depositato ulteriore memoria.
8. Il 20 gennaio 2022 hanno depositato memorie di replica l’ARPAE, la Regione Emilia-Romagna e la società Ag. Ci. Ve. s.r.l.
9. Alla camera di consiglio del 2 dicembre 2021, su richiesta delle parti, l’esame della domanda cautelare è stato differito all’udienza pubblica per la trattazione del merito della causa.
10. All’udienza pubblica del 10 febbraio 2022, la causa è stata trattenuta in decisione senza che alcuna delle parti abbia insistito per l’esame dell’incidente cautelare.

 

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DIRITTO

11. La sezione rileva preliminarmente che è stato devoluto l’intero thema decidendum trattato in primo grado; pertanto, per ragioni di economia dei mezzi processuali e semplicità espositiva, secondo la logica affermata dalla decisione della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 5 del 2015, il collegio esaminerà direttamente i motivi originari posti a sostegno del ricorso di primo grado, i quali perimetrano obbligatoriamente il processo di appello ex art. 104 c.p.a. (sul principio e la sua applicazione pratica, fra le tante, cfr. sez. IV, n. 1040 del 2022, n. 1137 del 2020, n. 1130 del 2016, sez. V, n. 5868 del 2015; sez. V, n. 5347 del 2015).
12. L’appello è infondato e deve essere respinto.
12.1.E’ privo di pregio il primo dei motivi dedotti con il ricorso in primo grado, con cui è stato eccepito che il procedimento sarebbe contraddistinto dall’assunzione da parte di ARPAE di compiti di amministrazione attiva, in violazione dei principi affermati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, tanto che la legge regionale n. 4/2018, unitamente alla legge regionale n. 13/2015, poste a fondamento del procedimento in contestazione, sarebbe costituzionalmente illegittima per violazione della competenza statale esclusiva in materia di tutela dell’ambiente (art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.) cui i ricorrenti hanno fatto conseguire istanza di rimessione alla Corte costituzionale.
12.1.1. Il ricorso svolge ampi richiami alla sentenza n. 132/2017 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 della legge della Regione Molise 4 maggio 2016, n. 4 (Disposizioni collegate alla manovra di bilancio 2016-2018 in materia di entrate e spese. Modificazioni e integrazioni di leggi regionali), con il quale è stato previsto l’ampliamento delle attribuzioni dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Regione Molise (ARPAM) e disposta l’assegnazione delle “funzioni amministrative regionali in materia di ambiente e di energia”, nonché di quelle “in materia di: a) inquinamento atmosferico, di cui all’art. 4 della legge regionale 22 luglio 2011, n. 16 (Disposizioni per la tutela dell’ambiente in materia di inquinamento atmosferico); b) impianti termici, di cui all’art. 42 della legge regionale 29 settembre 1999, n. 34 (Norme sulla ripartizione delle funzioni e dei compiti amministrativi tra la Regione e gli Enti locali, in attuazione dell’art. 3 della legge 8 giugno 1990, n. 142, della legge 15 marzo 1997, n. 59 e del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112)”.

 

Impianti zootecnici intensivi e la realizzazione di nuovi impianti

 

12.1.2. La sentenza della Corte costituzionale – dopo avere rammentato che l’ARPAM è stata istituita sulla base del decreto-legge n. 496 del 1993, che ne ha definito natura e funzioni, e che il legislatore statale ha previsto che ogni Regione e Provincia autonoma istituisse la propria agenzia regionale e provinciale “per lo svolgimento delle attività di interesse regionale di cui all’art. 01 e delle ulteriori attività tecniche di prevenzione, di vigilanza e di controllo ambientale, eventualmente individuate dalle Regioni e province autonome di Trento e Bolzano” (art. 03) – ha rilevato che la Regione Molise, con la successiva legge n. 4 del 2016, ha poi attribuito all’Agenzia compiti ulteriori, e precisamente “le funzioni amministrative regionali in materia di ambiente e di energia”, nonché quelle in materia di inquinamento atmosferico e di impianti termici, sottolineando che si tratta, all’evidenza, non di funzioni legate ad attività tecniche di prevenzione, di vigilanza e di controllo ambientale, quali quelle previste nel decreto-legge, bensì di funzioni di amministrazione attiva in materia non solo di ambiente ma anche di energia.
A proposito del decreto-legge in questione, la Corte, pronunciandosi sulla sua legittimità costituzionale, aveva affermato che “il sistema organizzativo e funzionale delineato dalle nuove disposizioni sui controlli ambientali e sull’istituzione dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente appare nel suo complesso diretto ad innovare profondamente la disciplina del settore. Il nuovo assetto normativo segue principi che vedono enucleate le funzioni tecnico-scientifiche, di consulenza e controllo, da tenere separate dall’amministrazione attiva e da esercitare ai distinti livelli, statale e provinciale (o regionale), mediante apposite agenzie, dotate di autonomia” (sentenza n. 356 del 1994).
Nella stessa sentenza si aggiungeva che “si è in presenza di principi che assumono i caratteri propri delle norme fondamentali di riforma economico-sociale: profondamente innovativi nel settore della protezione ambientale, di essenziale importanza per la vita della comunità, realizzano, secondo esigenze di carattere unitario, valori espressi dagli articoli 9 e 32 della Costituzione”.

 

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La Corte costituzionale, con la sentenza n. 132/2017, ne ha tratto la conclusione che è chiara la volontà del legislatore statale di realizzare un duplice obiettivo: quello di assicurare una gestione ispirata a criteri rigorosamente tecnico-scientifici e quello di garantirne l’unitarietà, pur nel rispetto delle autonomie regionali e delle relative competenze e che l’obiettivo viene perseguito attraverso la costituzione di una rete di strutture, incardinate nelle Regioni e facenti capo all’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente (ANPA), le quali devono avere una disciplina uniforme – come evidenziato dalla citata sentenza – e devono operare in modo coordinato e sinergico, come confermato dalla legge 28 giugno 2016, n. 132, che ha istituito il Sistema nazionale a rete per la protezione dell’ambiente, del quale fanno parte l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) e le ARPA, rispetto alle quali è stata ribadita la natura tecnica delle attività da esse svolte. Secondo la sentenza della Corte costituzionale, ne discende che l’autonomia diviene un requisito qualificante della singola Agenzia, come del sistema in generale, poiché solo grazie ad esso può essere garantito il rispetto dei criteri operativi, puramente tecnico-scientifici, cui il sistema stesso deve attenersi e che tali presupposti sono incompatibili con il coinvolgimento in attività di amministrazione attiva, quali quelle considerate nella legge regionale molisana, attività che, essendo espressione di discrezionalità amministrativa in senso proprio, comportano una ponderazione degli interessi coinvolti (si pensi alla pianificazione ambientale) e quindi sono soggette alle direttive degli organi rappresentativi titolari della “politica” ambientale” (par. 4.2 della sentenza della Corte costituzionale n. 132/2017).
Per tali ragioni, la Corte ha ritenuto che la disciplina regionale si discostasse radicalmente dal principio fondamentale contenuto nella normativa statale in questione, con ciò violando l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
12.1.3. Occorre ora riscontrare se quanto enucleato dalla sentenza della Corte costituzionale con riferimento alla legge molisana consenta di giungere a conclusioni analoghe, secondo quanto dedotto dagli odierni appellanti, anche con riferimento alle disposizioni della legge regionale dell’Emilia-Romagna applicabili alla controversia in esame e all’attuazione che ne è stata data dalle delibere di Giunta regionale successive, che nell’insieme – secondo gli appellanti – assegnerebbero funzioni di amministrazione attiva all’ARPAE tanto con riguardo al procedimento relativo all’AIA quanto con riguardo al procedimento relativo alla VIA.

 

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12.1.4. E’ necessario muovere dalle disposizioni della legge regionale di riferimento (n. 13 del 2015), costituite in particolare:
– dall’art. 15, comma 4, secondo cui la Regione esercita le funzioni in materia di valutazione di impatto ambientale (VIA) di cui all’articolo 7, comma 2, della legge regionale 20 aprile 2018, n. 4 (Disciplina della valutazione di impatto ambientale dei progetti), previa istruttoria dell’Agenzia regionale per la prevenzione, l’ambiente e l’energia di cui all’articolo 16;
– dall’art. 7, comma 2, della legge regionale n. 4 del 2018, secondo cui le valutazioni di impatto ambientale per i progetti di cui all’Allegato A.2 (tra cui sono compresi gli allevamenti avicoli), sono di competenza della Regione con le modalità di cui all’art. 15, comma 4, della l.r. n. 13/2015, ovverosia previa istruttoria di ARPAE.
Rilevano inoltre due atti organizzativi della Regione: la deliberazione della Giunta regionale n. 1795 del 2016, che ha dettagliato le funzioni istruttorie attribuite ad ARPAE nella procedura di VIA, e la determinazione dirigenziale n. 20138 del 2017, con la quale ARPAE è stata delegata a svolgere il compito di “responsabile del procedimento unico” per il rilascio del P.A.U.R. e il compito di “rappresentante unico” della Regione nella Conferenza di servizi decisoria.
ARPAE, secondo quanto previsto dalle disposizioni indicate, ha dunque curato l’intero “procedimento unico” in base alla legge regionale n. 4/2018, indicendo e conducendo la conferenza di servizi istruttoria e quella decisoria, esercitando il ruolo di “Responsabile del procedimento unico” per il rilascio del P.A.U.R. oltre a tutte le funzioni istruttorie nell’ambito della procedura. Ha poi prodotto il verbale conclusivo della Conferenza di servizi, che costituisce la decisione motivata della conferenza stessa, e ha partecipato a tale decisione finale esprimendo la volontà propria e della Regione Emilia-Romagna in qualità di suo soggetto delegato per le funzioni istruttorie conferite sulla base dell’art. 15, comma 4, della legge regionale n. 13/2015 e dell’art. 7, comma 2, della legge regionale n. 4/2018. Hanno inoltre trovato applicazione i due atti di tipo organizzativo della Regione richiamati.
A ben vedere, gli atti posti in essere da ARPAE nell’esercizio delle funzioni istruttorie sono o meri atti materiali (per esempio gli adempimenti relativi alle pubblicazioni) o atti endoprocedimentali (per esempio le richieste di integrazioni documentali e le concessioni di proroghe) e risultano privi di rilievo provvedimentale. Non integra infatti alcun connotato provvedimentale autonomo l’esercizio del potere amministrativo relativo al compito di “responsabile del procedimento unico” per il rilascio del P.A.U.R. né il compito attribuito ad ARPAE dalla Regione di “rappresentante unico” della Regione stessa nella conferenza di servizi decisoria, dove ARPAE esterna le decisioni dell’ente in ordine all’esercizio di quei poteri amministrativi che gli spettano nell’ambito della conferenza di servizi decisoria.
Quanto al provvedimento di VIA, espressione di un potere inequivocabilmente posto in capo alla Regione in base alla legge regionale (art. 15, comma 4, della L.R. n. 13/2015), la decisione è comunque adottata dalla Regione ed esternata da ARPAE in sede di Conferenza di servizi decisoria.
Analogamente, quanto all’esercizio da parte di ARPAE dei poteri relativi all’AIA, oltre che di quelli relativi alla concessione di derivazione idrica sotterranea, sulla base degli artt. 15, comma 8, e 16, comma 2, della l.r. n. 13/2015, sono poste in capo a quest’ultima le sole funzioni a contenuto vincolato o, al più, connotate da un ambito di discrezionalità di tipo tecnico, rimanendo riservate espressamente alla Regione le funzioni di indirizzo, di pianificazione e di programmazione (art. 15, comma 1, della L.R. n. 13/2015) e la funzione in materia di valutazione di impatto ambientale (art. 15, comma 4, della L.R. n. 13/2015), caratterizzata, non solo da una valutazione di tipo tecnico ma anche da una discrezionalità amministrativa in senso proprio.

 

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Invece, i poteri attribuiti ad ARPAE non sono contrassegnati da discrezionalità in senso proprio – ovverosia da una discrezionalità basata sulla comparazione degli interessi coinvolti – bensì sono vincolati o, eventualmente, si profilano al più quali esercizio di discrezionalità tecnica. Tanto vale per le concessioni per il prelievo di acqua pubblica di cui al Regolamento regionale n. 41 del 2001, emesse nel caso di specie all’esito del riscontro del parere favorevole della Provincia di Rimini e della riscontrata compatibilità con il Piano di Gestione Distrettuale ai sensi delle vigenti disposizioni regionali, e vale per l’Autorizzazione Integrata Ambientale rilasciata ai sensi della legge regionale n. 21 del 2004 in sostituzione di atti di assenso che risultano, tutti, espressione di una potestà amministrativa vincolata o, nel caso, caratterizzata da una discrezionalità di tipo tecnico.
Le disposizioni della legge regionale (in particolare dell’art. 16, comma 2, e dell’art. 14, comma 1, della L.R. n. 13/2015) – e la relativa attuazione che ne è stata data – presentano quindi chiari tratti distintivi rispetto alle disposizioni della legge regionale molisana, investite dalla sentenza della Corte costituzionale n. 132/2017.
Per questo sono esenti dalle censure mosse dagli appellanti e risulta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale da loro prospettata.
Questa conclusione è coerente con i principi ribaditi più di recente dalla Corte costituzionale in una vicenda che presenta elementi di analogia con quella odierna (cfr. sentenza n. 189 del 2021).
Non si può quindi che convenire con le conclusioni cui perviene sul punto la sentenza impugnata: ARPAE svolge anzitutto funzioni di supporto tecnico ed istruttorio a favore della Regione, pienamente in linea con le previsioni dell’art. 1 del decreto-legge n. 496/1993, ripreso dalla legge regionale n. 44/1995, che ricomprende tra le funzioni dell’Agenzia, all’art. 5, comma 1, lettera p), quella di “fornire il supporto tecnico alle attività istruttorie connesse alla approvazione di progetti e al rilascio di autorizzazioni in materia ambientale”. In materia di VIA la competenza decisoria è saldamente ancorata in capo all’organo politico regionale, mentre la competenza attribuita ad ARPAE al rilascio dell’AIA e della concessione di derivazione idrica sotterranea configura esercizio di discrezionalità di tipo tecnico, ferma restando la sottoposizione al potere regionale di indirizzo, pianificazione e programmazione.
Il primo motivo del ricorso in primo grado è dunque infondato.
12.2. Con il secondo motivo del ricorso in primo grado è stata dedotta la violazione delle garanzie procedimentali.

 

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Anche il secondo motivo è infondato.
12.2.1. La direttiva 2011/92/UE impone tempestive ed effettive opportunità di partecipazione alle procedure decisionali in materia ambientale. In attuazione della direttiva, l’art. 27-bis del d.lgs. n. 152/2006 prevede l’obbligo di consultazione pubblica dei progetti soggetti a VIA di competenza regionale. Per quanto qui rileva, il comma 5 dell’art. 27-bis – nel testo ratione temporis applicabile alla vicenda controversa in esame – prevedeva che, una volta ricevuta la documentazione integrativa richiesta al proponente, l’autorità competente potesse disporre una nuova pubblicazione del progetto, ove motivatamente ritenesse che le modifiche o le integrazioni fossero sostanziali e rilevanti per il pubblico.
La decisione di riavviare la consultazione pubblica è prevista solamente in presenza di tali presupposti, potendosi solo in una evenienza del genere riconoscere l’obbligo in capo all’amministrazione di motivare in modo puntuale, non invece nell’opposta ipotesi negativa.
12.2.2. Sebbene siano innegabili le integrazioni al progetto sottoposto a VIA, a seguito dei rilievi avanzati da ARPAE in sede di Conferenza di servizi, non ne è risultato modificato nella sostanza il progetto di demolizione e ricostruzione dell’allevamento già dismesso, per cui non può considerarsi eluso o non raggiunto il fine partecipativo perseguito dalle disposizioni della direttiva europea e dall’articolo 27-bis citato.
Risulta invece che l’amministrazione abbia proceduto secondo la scansione data dal legislatore (art. 27-bis del d.lgs. n. 152/2006), richiedendo prima agli enti coinvolti di verificare la completezza della documentazione per quanto di competenza e poi alcune integrazioni conseguenti a un riscontro estrinseco della documentazione prodotta. Solo in un momento successivo (seconda fase del procedimento) sono state richieste integrazioni di carattere contenutistico del progetto e dei relativi elaborati predisposti dal proponente, con richiesta alla società delle integrazioni ritenute a seguito di Conferenza di servizi istruttoria. Né emergono elementi atti a suffragare le doglianze degli appellanti circa il dovere di procedere a una nuova consultazione pubblica e il vizio proprio della scelta discrezionale dell’amministrazione di non sottoporre al pubblico il progetto così come risultante a seguito delle integrazioni apportate dal proponente, nell’evidente presupposto che le modifiche o le integrazioni non fossero sostanziali e rilevanti per il pubblico. Nel loro insieme, le richieste di integrazioni alla società proponente configurano un approfondimento o chiarimento che non incidono sulla consistenza del progetto nel suo complesso. L’analisi svolta da ARPAE e le richieste di integrazioni hanno investito aspetti programmatici e aspetti progettuali volti ad approfondire aspetti già indicati nei loro tratti principali, richieste circoscritte sull’AIA, sugli impatti ambientali, richieste non di modifica progettuale, di richieste di approfondimento sul SIA.
In definitiva, nella fattispecie, le norme sulla partecipazione procedimentale non risultano applicate meccanicamente ma risulta soddisfatto il raggiungimento sostanziale dello scopo partecipativo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 4263 del 2018) né è dato rilevare palesi incongruità nella opzione seguita dall’amministrazione di non procedere a una nuova consultazione pubblica. Sono quindi da condividere le conclusioni cui perviene sul punto la sentenza impugnata.

 

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12.3. Il terzo motivo del ricorso in primo grado si incentra sul contrasto del progetto con l’art. 5.7 del RUE – il quale contiene un divieto generale di nuovi allevamenti intensivi nel territorio rurale, mitigato dalla possibilità di mantenere quelli “esistenti” e di ampliare “la capacità produttività esistente” fino al 20% – sostenendosi che l’allevamento in questione non potrebbe definirsi “esistente”.
Anche il terzo motivo è inaccoglibile.
12.3.1. Effettivamente, l’art. 5.7. del RUE stabilisce che non sono ammessi nuovi insediamenti di allevamenti zootecnici intensivi e che sono ammessi interventi di ristrutturazione edilizia degli allevamenti intensivi esistenti e l’ampliamento degli allevamenti zootecnici intensivi esistenti, compatibili con il parametro del 20% della capacità produttiva esistente quale limite massimo. L’incremento della capacità produttiva esistente di un allevamento zootecnico intensivo, qualora ammesso, può comportare l’ampliamento delle superfici (edificate) produttive aziendali; deve pertanto essere dimostrata, in sede di richiesta del titolo abilitativo, la coerenza tra le superfici esistenti/richieste e le diverse tipologie di allevamento.
Gli appellanti ne deducono che il progetto in questione non avrebbe ad oggetto un allevamento esistente bensì un rudere e, in ogni caso, che non sarebbe comunque consentito un ampliamento del 20 % dell’impianto preesistente per essere l’attuale capacità produttiva pari a zero.
12.3.2. E’ necessario rammentare, come ha fatto la sentenza impugnata, che l’art. 5.1., comma 2, del RUE prevede che “Il RUE disciplina, sulla base della ricognizione effettuata sull’intero territorio rurale intercomunale, le trasformazioni del patrimonio edilizio esistente privo di interesse storico architettonico, culturale e testimoniale” e che il patrimonio esistente è disciplinato anche da quanto indicato negli elaborati “R.D.” che ne definiscono le specifiche condizioni di trasformazione. L’art. 5.3.2. del RUE, rubricato “Interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente”, permette il recupero del patrimonio edilizio esistente avente, tra le altre, la destinazione d’uso N.1.3b (ovvero, allevamenti zootecnici intensivi), se “con regolare titolo abilitativo per la destinazione d’uso in essere alla data di adozione del RUE”. Non viene quindi in rilievo l’attualità dell’attività produttiva esercitata all’interno dei fabbricati appartenenti al patrimonio esistente che deve essere recuperato, bensì la loro esistenza strutturale, attestata dal RUE anche a mezzo della “Scheda R.D.”, fermo restando che tali fabbricati abbiano regolare titolo abilitativo per la specifica destinazione d’uso alla data di adozione del RUE.
L’art. 5.7. del RUE disciplina poi la fattispecie specifica degli allevamenti zootecnici intensivi, non ammettendo la realizzazione di nuovi impianti, ma, al contempo, permettendo di recuperare quelli esistenti, attraverso loro ristrutturazione o ampliamento fino al 20%.

 

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Ancora una volta emerge che il requisito dell’esistenza viene in rilievo da un punto di vista urbanistico-edilizio e non funzionale.
Costituisce inoltre parte del RUE l’elaborato “RD – Schede di analisi ed indicazioni operative relative agli edifici del territorio rurale”. La scheda n. 041 – 459, in funzione ricognitiva del patrimonio edilizio sul territorio intercomunale secondo quanto previsto dall’art. 5.1., comma 2, del RUE, individua l’immobile in questione e lo include tra il patrimonio edilizio soggetto a trasformazioni in quanto privo di interesse storico – architettonico, culturale e testimoniale. Tale scheda definisce le specifiche condizioni di trasformazione dell’immobile e costituisce attestazione del fatto che l’Amministrazione comunale ha ritenuto “esistente” il complesso immobiliare di cui si discute, classificandolo come “Capannone per allevamento zootecnico intensivo”, tipo N1.3b, in stato di conservazione complessivamente mediocre e con esclusione della delocalizzazione.
Il medesimo RUE ha infatti indicato (art. 5.10, “Interventi di delocalizzazione e riqualificazione del comparto zootecnico”) gli insediamenti da delocalizzare in quanto posti in ambiti caratterizzati da specifiche criticità (ambiti agricoli periurbani; ambiti compresi entro una fascia di 500 mt. dal perimetro di territorio urbanizzato e urbanizzabile; fasce di espansione inondabili) e non vi ha incluso il complesso immobiliare in questione, sicchè è chiara la volontà del pianificatore di consentire il mantenimento della destinazione ad allevamento zootecnico intensivo e la ristrutturazione edilizia.
Né è possibile asserire che i fabbricati in questione siano classificabili come meri ruderi. Per considerare la ristrutturazione è infatti sufficiente che l’originaria consistenza dell’edificio sia accertabile nei suoi elementi essenziali, con adeguato grado di sicurezza, sulla base di riscontri documentali od altri elementi certi e verificabili che presentino un minimo di consistenza idoneo a farlo ritenere presente nella realtà (cfr. Cons. Stato, sez. VI, n. 6654 del 2019).
La documentazione fotografica in atti consente di soddisfare le condizioni appena indicate per riconoscere la consistenza e l’ingombro planovolumetrico dei fabbricati “esistenti”, in presenza di pareti perimetrali in muratura o dello scheletro e, per alcuni, la copertura.
Si deve dunque convenire con la sentenza impugnata, laddove giunge alla conclusione che i fabbricati facente parte dell’allevamento dismesso nella prima metà degli anni ottanta sono “esistenti” ai sensi del RUE, delle schede RD previste dal RUE stesso e della destinazione d’uso impressa sui titoli edilizi.
12.4. Il quarto motivo riguarda la determinazione della “capacità produttiva esistente” ai fini dell’ampliamento dell’allevamento intensivo nel limite del 20%, in conformità con gli artt. 11 e 79 del P.T.C.P. di Forlì e Cesena (art. 5.7. del RUE).
Gli appellanti deducono che sarebbe di fatto impossibile sapere quale fosse tale capacità, risalente nel tempo, di fatto oggi pari a zero, trattandosi di un’attività nuova, atteso che il precedente allevamento era stato dismesso negli anni ’80.
12.4.1. Il motivo è infondato.
Ebbene, una volta confermato che il requisito dell'”esistenza” dell’immobile non consiste nell’attualità della funzione svolta, ne consegue che la stessa capacità produttiva esistente ai fini dell’ampliamento dell’allevamento intensivo nel limite del 20% può essere calcolata in base a elementi presuntivi. La base di calcolo è stata individuata correttamente dall’amministrazione che ha considerato solo le superfici dei capannoni in origine utilizzati per ospitare i volatili, secondo calcoli effettuati su stime plausibili incentrate su una serie di parametri, a partire dal l tipo di volatili.

 

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La “capacità produttiva esistente” non può che essere collegata alla potenzialità di produzione desumibile dalla superficie utile allevabile ovvero dalla superficie destinata specificatamente alla produzione.
Il provvedimento regionale impugnato fa espresso riferimento all’ampliamento del 20% della capacità produttiva “teorica” e alla verifica da parte di ARPAE della superficie cui applicare il parametro del 20% di possibile ampliamento nell’ambito dell’AIA. A sua volta la determinazione della superficie si è basata su una puntuale relazione tecnica del 4 marzo 2021, in atti, che ha preso in considerazione i documenti esistenti relativi alle metrature degli edifici e i rilievi sul posto necessari per stabilire la superficie utile allevabile dell’allevamento (SUA), la precedente attività relativa ad animali allevati a terra, lo scorporo della superficie non utilizzata ad allevamento (quali locali tecnici e locali accessori), per addivenire alla conclusione che la capacità produttiva a seguito dell’ampliamento (pari a 294.450 capi) fosse corretta rispetto alla SUA prevista.
Va, al contrario, ribadita l’inidoneità probatoria dei due documenti (un’autocertificazione di un soggetto dichiaratosi custode dell’allevamento avicolo e una dichiarazione di accatastamento del 1990), depositati dai ricorrenti al fine di suffragare l’ipotesi di una produttività preesistente dell’allevamento asseritamente inferiore rispetto a quella ricostruita da parte della controinteressata.
Non è inoltre del tutto conferente il richiamo svolto nel ricorso in primo grado alla sentenza del T.a.r. per l’Emilia-Romagna n. 907 del 2014, in quanto tale sentenza ha affrontato la questione della data di riferimento della capacità produttiva ai fini dell’ampliamento (alla data di entrata in vigore del P.T.C.P. ovvero alla data del primo atto autorizzativo) mentre non ha investito direttamente la distinta questione, rilevante in questa sede, relativa all’attualità ed effettività della capacità produttiva.
12.5. Con il quinto motivo del ricorso in primo grado, gli appellanti sostengono che l’impianto in contestazione, essendo un rudere, sarebbe comunque annoverabile per caratteristiche e dimensioni come nuova opera soggetta alle regole edilizie e ambientali vigenti al momento della riedificazione, e non una ristrutturazione, con mutamento del sedime e della volumetria.
12.5.1. Anche questo motivo non è suscettibile di favorevole esame.
Come si è visto, le connotazioni dell’immobile, documentate in atti, escludono la sua riconducibilità alla categoria del “rudere”, per cui esso è soggetto alla disciplina propria delle ristrutturazioni.

 

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Inoltre, rispetto ai precedenti giurisprudenziali citati dagli appellanti (v. in particolare la sentenza del Consiglio di Stato, sezione VI, n. 2919 del 2014) il caso di specie presenta chiari profili distintivi. Diverso dal presente è infatti il caso in cui si discuta della stessa esistenza “materiale” al momento della presentazione della domanda di costruzione, qualora debba essere riscontrata una connessione materiale tra vecchia e nuova costruzione erigenda, a seguito della totale demolizione del precedente manufatto che conseguentemente comporta, essendo stata resa libera l’area di sedime, un autonomo titolo ad edificare secondo le ordinarie regole urbanistico-edilizie vigenti al momento della presentazione del relativo progetto. Nell’odierna controversia, invece, è da riconoscere – nei termini già indicati – la sussistenza di un vincolo funzionale di connessione o di consequenzialità tra il vecchio manufatto non più utilizzato e la sua ristrutturazione.
12.6. Il sesto motivo del ricorso in primo grado – secondo cui l’intervento in discussione dovrebbe essere annoverato tra le nuove costruzioni e quindi sarebbe in contrasto con il divieto di cui all’art. 5.7 del RUE, non essendo ammessa la ricostruzione di un complesso immobiliare con diversa sagoma, sedime e volume – è del pari infondato.
12.6.1. Ciò sia per le ragioni già esposte in precedenza sia, in particolare, perché – non trattandosi di intervento di nuova costruzione – è a esso applicabile l’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380/2001, come modificato dall’art. 10, comma 1, lettera b), del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, applicabile ratione temporis alla fattispecie, in forza del quale è possibile procedere alla ristrutturazione di un edificio esistente – pur se eventualmente crollato o demolito, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza – anche con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche. L’ampliamento, come si è visto, è consentito dallo strumento urbanistico (art. 5.7, comma 2, del RUE).
Né può ostare il vincolo paesaggistico sull’area in questione, atteso che l’autorizzazione paesaggistica è stata rilasciata il 14 settembre 2020 dal Comune di (omissis) sulla base del parere favorevole della Soprintendenza.
A conferma, l’art. 3, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380/2001, nella versione vigente e applicabile ratione temporis alla vicenda controversa, impone la demolizione e ricostruzione senza variazione di sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e senza incrementi di volume, in due soli casi, nessuno dei quali corrisponde alla fattispecie in esame: a) immobili sottoposti a tutela ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio; b) immobili “ubicati nelle zone omogenee (omissis) di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili, in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico. L’esclusione investe quindi solo immobili che (per loro specifiche caratteristiche o per caratteristiche del contesto urbano) siano sottoposti a una specifica tutela. Non è questo il caso: l’allevamento non è sottoposto a un vincolo specifico ai sensi del codice dei beni culturali, ma sorge su un’area paesaggisticamente rilevante. Ed è questa la ragione per la quale l’intervento edilizio è stato oggetto di autorizzazione paesaggistica, rilasciata dal Comune di (omissis) con provvedimento 14 settembre 2020, n. 1, una volta acquisito il parere positivo con prescrizioni della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le Province di Ravenna, Forlì -Cesena e Rimini, 11 marzo 2019, prot. n. 3511.

 

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12.7. Il settimo motivo del ricorso in primo grado è irricevibile.
12.7.1. I ricorrenti hanno lamentato l’illegittimità del condono edilizio del 2014 – rilasciato ai sensi della legge n. 47/1985, concernente opere edilizie realizzate prima del 1983 su alcuni dei fabbricati dell’allevamento – in ragione del fatto che non sarebbe stata rilasciata da parte della Soprintendenza la presupposta autorizzazione paesaggistica.
Tale motivo è stato proposto a distanza di sette anni dal rilascio del titolo in questione.
Costituiscono principi acquisiti nella giurisprudenza di questo Consiglio di Stato quelli secondo cui:
a) la “piena conoscenza” coincide con la percezione dell’esistenza di un provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidenti la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso;
b) la prova della tardività del ricorso può essere data, da chi la eccepisce, anche mediante presunzioni semplici, specie ove sia trascorso un notevole lasso di tempo (come nel caso di specie), e il contenuto del provvedimento impugnato è rappresentato dall’apprensione del bene o dall’esecuzione di lavori (cfr. ex plurimis e da ultimo Cons. Stato, sez. IV, 21 marzo 2016, n. 1135, resa in fattispecie simile).
Tornando al caso qui in discussione, è pacifico che la presenza del manufatto nella sua conformazione sottoposta poi a sanatoria risale agli anni ’80 e che il permesso in sanatoria risale al 2014, dopo avere avuto congrua pubblicità con l’affissione all’albo comunale.
Se così non fosse, se cioè si volesse ancorare la decorrenza del termine impugnatorio a una diversa, successiva data, significherebbe aggirare la regola legislativamente fissata della decadenza del termine di impugnazione a danno del principio della certezza e stabilizzazione delle situazioni giuridiche come conformate dall’azione della p.a. (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 8149 del 2020; n. 2292 del 2020; n. 962 del 2020; sez. IV, n. 1459 del 2016, già citata; sez. IV, n. 3825 del 2016). Si tratta di presupposti che risultano acclarati negli atti di causa, a conferma della tardività del motivo dedotto.
12.8. L’ottavo motivo è infondato per le stesse ragioni esposte sub 12.4., con riferimento al quarto motivo. L’accuratezza del computo della consistenza produttiva ammessa ai fini dell’allevamento avicolo e del suo ampliamento rispetto al passato è stata ampiamente comprovata in uno con la conformità del calcolo al quadro regolatorio di riferimento.
La società contro interessata ha svolto uno specifico approfondimento nello Studio di Impatto Ambientale (SIA), segnatamente ai paragrafi 1.1.1., 2.1.1.1., 2.1.1.2., 2.1.1.3., 2.1.1.4. e 2.1.1.5., dopo avere effettuato rilievi in loco, accertato la superficie totale dei fabbricati preesistenti e la superficie dedicata all’allevamento (c.d. superficie utile allevabile), su cui è stato poi computato l’aumento del 20% in sede di progetto. Né, per le ragioni già esposte, sono emersi elementi ostativi tali per cui l’Amministrazione avrebbe dovuto discostarsi dai calcoli effettuati.
12.9. Il nono motivo (il primo tra i motivi relativi all’impatto ambientale del progetto) lamenta che in sede di VIA vi sarebbe stata una grave sottovalutazione degli effetti del nuovo impianto sulla salute umana, senza considerare tra l’altro gli effetti della fase di stoccaggio e stabulazione della pollina.
12.9.1. Il motivo è sia inammissibile che infondato.

 

Impianti zootecnici intensivi e la realizzazione di nuovi impianti

 

12.9.2. Il collegio ritiene utile precisare quali possano essere l’esatta natura del potere (e l’ampia latitudine della discrezionalità ), esercitati dall’amministrazione in sede di VIA, in quanto istituto finalizzato alla tutela preventiva dell’ambiente inteso in senso ampio.
Il collegio, infatti, non intende deflettere dagli approdi esegetici cui è pervenuta la giurisprudenza (internazionale e nazionale), da cui emerge la natura ampiamente discrezionale delle scelte effettuate, giustificate alla luce dei valori primari ed assoluti coinvolti (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 13 giugno 2011, n. 3561; sez. IV, 5 luglio 2010, n. 4246; sez. V, 12 giugno 2009, n. 3770; Corte giust., 25 luglio 2008, c-142/07; Corte cost., 7 novembre 2007, n. 367, cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74, co.1, e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.).
“E’ stato chiarito che nel rendere il giudizio di valutazione di impatto ambientale, l’amministrazione esercita una amplissima discrezionalità che non si esaurisce in un mero giudizio tecnico, in quanto tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa e istituzionale in relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti; la natura schiettamente discrezionale della decisione finale risente dunque dei suoi presupposti sia sul versante tecnico che amministrativo.
Le posizioni soggettive delle persone e degli enti coinvolti nella procedura sono pacificamente qualificabili in termini di interesse legittimo ed è altrettanto assodato che le relative controversie non rientrano nel novero delle tassative ed eccezionali ipotesi di giurisdizione di merito sancite oggi dall’art. 134 c.p.a. (cfr., sotto l’egida della precedente normativa, identica in parte qua, Cons. St., ad. plen., 9 gennaio 2002, n. 1).
Premesso che a seguito della storica decisione di questo Consiglio (cfr. sez. IV, 9 aprile 1999, n. 601), è pacifico che il sindacato giurisdizionale sugli apprezzamenti tecnici dell’amministrazione possa svolgersi attraverso la verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni compiute da quest’ultima, sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo, è necessario precisare che il controllo del giudice amministrativo sulle valutazioni discrezionali deve essere svolto extrinsecus, nei limiti della rilevabilità ictu oculi dei vizi di legittimità dedotti, essendo diretto ad accertare il ricorrere di seri indici di invalidità e non alla sostituzione dell’amministrazione.

 

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Sulla scorta di ricevuti principi (cfr., da ultimo e negli esatti termini, Cass. civ., sez. un., 17 febbraio 2012, nn. 2312 e 2313; Corte cost., 3 marzo 2011, n. 175; Cons. St., sez. VI, 9 febbraio 2011, n. 871), cui si rinvia a mente del combinato disposto degli artt. 74, co.1, e 88, co. 2, lett. d), c.p.a.:
a) la sostituzione, da parte del giudice amministrativo, della propria valutazione a quella riservata alla discrezionalità dell’amministrazione costituisce ipotesi di sconfinamento vietato della giurisdizione di legittimità nella sfera riservata alla p.a., quand’anche l’eccesso in questione sia compiuto da una pronuncia il cui contenuto dispositivo si mantenga nell’area dell’annullamento dell’atto;
b) in base al principio di separazione dei poteri sotteso al nostro ordinamento costituzionale, solo l’amministrazione è in grado di apprezzare, in via immediata e diretta, l’interesse pubblico affidato dalla legge alle sue cure;
c) conseguentemente, il sindacato sulla motivazione delle valutazioni discrezionali:
I) deve essere rigorosamente mantenuto sul piano della verifica della non pretestuosità della valutazione degli elementi di fatto acquisiti;
II) non può avvalersi di criteri che portano ad evidenziare la mera non condivisibilità della valutazione stessa;
III) deve tenere distinti i profili meramente accertativi da quelli valutativi (a più alto tasso di opinabilità ) rimessi all’organo amministrativo, potendo esercitare più penetranti controlli, anche mediante c.t.u. o verificazione, solo avuto riguardo ai primi” (Cons. Stato, sez. V, n. 1640 del 2012; successivamente si vedano sez. IV, n. 7384 del 2021; n. 3597 del 2021; n. 1714 del 2021).
Il sindacato del giudice amministrativo in materia è pertanto necessariamente limitato alla manifesta illogicità e incongruità, al travisamento dei fatti o a macroscopici difetti di istruttoria ovvero quando l’atto sia privo di idonea motivazione (cfr. ex multis Cons. Stato, sez. II, n. 5451 del 2020; sez. II, n. 5379 del 2020; sez. V, n. 1783 del 2013; sez. VI, n. 458 del 2014).
12.9.3. Facendo applicazione dei suesposti principi alla vicenda per cui è causa, sulla scorta delle risultanze documentali in atti, va rilevato che non emergono manifeste illogicità e incongruità, travisamento di fatti o macroscopici difetti di istruttoria ovvero carenza di idonee motivazioni.
12.9.4. Vizi del genere, come tali rilevabili dal giudice, non emergono in primo luogo con riguardo al nono motivo, secondo cui il progetto sarebbe deficitario circa la gestione degli effluenti e delle sostanze veicolate dagli stessi (ammoniaca e metano).
Ciò senza contare che: l’utilizzo agronomico della pollina (concime naturale) è oggetto di regolamentazione in sede di AIA, come è stato fatto nel caso di specie, e non già in sede di VIA; il Piano di Utilizzo Agronomico (PUA), chiamato a riportare i terreni in cui si intende utilizzare la pollina a spandimento, nonché il bilancio dell’azoto distribuito sugli stessi terreni, è uno strumento che deve essere redatto annualmente e che si applica alle opere assoggettate a VIA, ma che non deve essere presentato all’interno dello stesso procedimento di VIA (v. art. 15, comma 7, del R.R. n. 3 del 2017); non sussiste obbligo di provvedere allo stoccaggio.
12.10. Per le stesse ragioni appena esposte, è infondato anche il decimo motivo, secondo il quale non sarebbero stati adeguatamente considerati in sede di VIA i rischi derivanti dalle operazioni di idrolavaggio dei capannoni e dello smaltimento delle acque di lavaggio nonché dalla gestione delle acque di pioggia, compresa l’interazione tra le acque meteoriche e le dust chambers.
12.10.1. Quanto alla contestazione della gestione delle acque di lavaggio, non può sfuggire che si tratta di questione di merito, attinente a una scelta tecnica relativa alla gestione del lavaggio dei capannoni, che non viola alcuna normativa igienico-sanitaria né presenta elementi di illogicità o incongruità evidenti. Né sussiste obbligo di effettuare il lavaggio a fine ciclo dei capannoni e delle attrezzature. Anche il Manuale per l’industria europea del pollame citato dai ricorrenti (che peraltro non configura una fonte normativa) non indicherebbe un obbligo di idrolavaggio.

 

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Di conseguenza è immune dai vizi dedotti anche la censura relativa alla valutazione sullo smaltimento delle acque di lavaggio dei capannoni.
La controinteressata ha inoltre chiarito la congruità dei dati relativi all’utilizzo dell’acqua per il lavaggio e il suo stoccaggio, in relazione al fatto che l’eventuale lavaggio dei capannoni non avviene simultaneamente in quanto i cicli di allevamento sono asincroni.
12.10.2. Con riferimento alla gestione delle acque piovane risulta decisivo considerare che nelle superfici esterne impermeabili dell’allevamento non vengono svolte attività comprese nell’art. 8, comma 2, punti a-b-c della DGR n. 268/2005 “Direttiva concernente indirizzi per la gestione delle acque di prima pioggia e di lavaggio da aree esterne (art. 39, d.lgs. 11 maggio 1999, n. 152)”. Inoltre, in sede di AIA ARPAE ha dettato puntuali prescrizioni volte ad evitare inquinamenti.
Quanto alla paventata interazione possibile tra le acque meteoriche e le dust chambers, non vi sono evidenze che il progetto permetta il dilavamento dell’acqua raccolta nella camera. Anzi, nel caso di eventuale accumulo interno di acqua a fine ciclo, come sottolineato dalla controinteressata, sarà possibile optare per un sistema di raccolta e smaltimento tramite autospurgo.
12.11. Considerazioni identiche a quelle svolte sub 12.9 e 12.10, con riguardo ai limiti del sindacato del giudice amministrativo, vanno svolte in riferimento all’undicesimo motivo, secondo cui lo studio di impatto atmosferico si baserebbe su fattore di emissione dell’ammoniaca sottostimato e valutato soltanto ai fini della salute umana e non sull’ambiente rurale circostante che verrebbe danneggiato dalle alte concentrazioni di ammoniaca e PM10.
12.11.1. Anche in relazione a tale motivo non risultano palesi incongruità nelle valutazioni svolte dall’amministrazione e negli esiti conseguenti: le emissioni più rilevanti sono state attentamente valutate nello studio di impatto in atmosfera, che ha palesato valori di concentrazione molto bassi, con la conseguenza che non verrebbero in evidenza significativi impatti sui terreni circostanti.
12.12. Per le stesse ragioni è infondato anche il dodicesimo motivo, secondo cui le emissioni atmosferiche dell’impianto progettato non rispetterebbero le normative ed i valori soglia attualmente vigenti (in particolare secondo quanto stabilito dalle NTA del Piano aria integrato regionale).
In disparte l’efficacia meramente programmatica del piano regionale, la stessa ARPAE ha verificato che il contesto rurale circostante è già caratterizzato da concimazioni del suolo e produzione di ammoniaca per le coltivazioni; lo studio di impatto in atmosfera ha messo in luce valori di concentrazione molto bassi, tanto da potersi escludere ragionevolmente un rilevante impatto anche sul contesto agricolo colturale circostante. Il fattore di emissione medio per PM10 utilizzato nello studio di impatto ambientale è conforme al BAT 2017.
Le ulteriori doglianze sono tutte riconducibili a valutazioni di carattere tecnico (fattore di emissione di ammoniaca utilizzato, migliore metodo per convogliare le emissioni orizzontali delle dust chambers, stima della soglia olfattiva minima dell’ammoniaca) rispetto a cui non è dato riscontrare manifesti difetti di istruttoria o motivazionali né profili di illogicità nelle valutazioni espresse nel procedimento di VIA. Non si possono che confermare, quindi, le conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata.
13. In conclusione, per le ragioni esposte, l’appello deve essere respinto.
14. Le spese del doppio grado di giudizio possono essere compensate, ex artt. 26, comma 1, c.p.a. e 92, comma 2, c.p.c., in relazione alla novità e alla complessità delle questioni esaminate.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese del doppio grado compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del giorno 10 febbraio 2022 con l’intervento dei magistrati:
Vito Poli – Presidente
Nicola D’Angelo – Consigliere
Silvia Martino – Consigliere
Michele Pizzi – Consigliere
Claudio Tucciarelli – Consigliere, Estensore

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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