La penalità di mora

Consiglio di Stato, sezione quarta, Sentenza 9 ottobre 2019, n. 6893.

La massima estrapolata:

La penalità di mora consiste in uno strumento per indurre l’Amministrazione ad eseguire tempestivamente l’ordine di pagamento, sicché tale strumento non è ovviamente utilizzabile per gli adempimenti pregressi, produttivi piuttosto di obbligazioni di natura risarcitoria, la sentenza non può disporre la penalità con riferimento ad un periodo di tempo anteriore alla sua pubblicazione.

Sentenza 9 ottobre 2019, n. 6893

Data udienza 3 ottobre 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
Sull’appello n. 8117 del 2015, proposto dal signor Ci. Uc., rappresentato e difeso dall’avvocato Sa. Fo., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (…);
contro
Il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima n. 3525/2015, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nella camera di consiglio del giorno 3 ottobre 2019 il pres. Luigi Maruotti;
Nessuno presente per le parti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con il ricorso n. 3405 del 2014 (proposto al TAR per il Lazio, Sede di Roma), l’appellante ha chiesto l’esecuzione della sentenza della Corte di appello di Roma, resa nel giudizio n. 11641/2008 in applicazione della legge n. 89 del 2001.
2. Il TAR, con la sentenza n. 3525 del 2015, ha accolto il ricorso, ha disposto le misure attuative del giudicato, con la nomina di un commissario ad acta, ha condannato il Ministero ad una somma ai sensi dell’art. 114 del c.p.a. ed alle spese del giudizio, liquidate in euro 100, con distrazione in favore del difensore dichiaratosi antistatario.
3. Con il gravame in esame, l’originario ricorrente ha impugnato la sentenza del TAR, proponendo due censure.
L’Amministrazione soccombente non ha impugnato a sua volta la sentenza.
4. Con il primo motivo, l’appellante ha contestato la sentenza del TAR, nella parte in cui essa ha previsto la astreinte ‘solo a far data dalla notificazione del ricorsò .
Ad avviso dell’interessato, il TAR avrebbe dovuto accogliere la sua domanda, con cui era stata chiesta la fissazione di una astreinte ‘a partire dal sesto mese successivo al deposito del decreto della Corte d’appello che riconosceva l’avvenuta violazione dell’art. 6 § 1 della Cedù .
Egli ha richiamato la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo sulla conseguenza della eccessiva durata delle procedure ed ha lamentato che il TAR ha ‘addossatò al privato ‘le conseguenze dannose dell’ulteriore ritardo con cui lo Stato adempia ai suoi obblighà, con violazione anche del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, non avendo il Ministero articolato alcuna difesa.
5. Ritiene il Collegio che la censura risulta infondata e va respinta.
5.1. L’invocato art. 114, comma 3, lettera e), del codice del processo amministrativo dispone che il giudice, in caso di accoglimento del ricorso per l’ottemperanza, “salvo che non sia manifestamente iniquo, e se non sussistono altre ragioni ostative, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dal resistente per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato”.
Tale disposizione non prevede l’obbligo del giudice dell’ottemperanza di accogliere senz’altro la richiesta di parte e di disporre automaticamente una tale misura, nel caso di constatato mancato pagamento: il giudice dell’ottemperanza è “dotato di un ampio potere discrezionale” (Cons. Stato, Ad. Plen., 25 giugno 2014, n. 15), che gli consente di effettuare una valutazione ostativa alla liquidazione, per considerazioni di carattere equitativo che possono anche escludere la meritevolezza della ‘penà in questione (Cons. Stato, Sez. IV, 13 maggio 2019, n. 3065).
Tra gli aspetti che possono essere complessivamente valutati dal giudice, per accogliere o meno una tale richiesta di parte, rientrano tutte le circostanze del caso concreto, tra cui possono avere rilievo la natura del credito insoddisfatto (ad esempio, la sua natura alimentare), la durata dell’inadempimento, la mancata esecuzione di precedenti sentenze già rese in sede di esecuzione, le questioni di carattere organizzativo quando si tratti di giudizi sostanzialmente di carattere seriale, ecc.
Il giudice può ovviamente valutare tutti tali aspetti, anche accogliendo in parte la domanda formulata dall’interessato.
5.2. Nella specie, col ricorso di primo grado è stata chiesta l’ottemperanza ad un giudicato basato sulla violazione della legge n. 89 del 2001, che notoriamente ha comportato e comporta l’insorgenza di un notevole contenzioso avente per oggetto non solo le pronunce di cognizione volte a rilevare la violazione delle disposizioni sostanziali della medesima legge, ma anche le ulteriori fasi di esecuzione.
In relazione a tale contenzioso, ad avviso della Sezione risulta ragionevole la valutazione del giudice dell’ottemperanza, il quale dispone le misure attuative del giudicato, accogliendo in parte la domanda dell’interessato.
In tal caso, vi è pur sempre una effettiva tutela del creditore insoddisfatto e la relativa valutazione discrezionale del giudice dell’ottemperanza non risulta iniqua.
D’altra parte, la penalità di mora consiste in’uno strumento per indurre l’Amministrazione ad eseguire tempestivamente l’ordine di pagamentò, sicché ‘tale strumento non è ovviamente utilizzabile per gli adempimenti pregressi, produttivi piuttosto di obbligazioni di natura risarcitorià (Sez. IV, 13 ottobre 2015, nn. 4780, 4724, 4722): la sentenza non può disporre la penalità con riferimento ad un periodo di tempo anteriore alla sua pubblicazione.
Contrariamente a quanto ha reiteratamente dedotto l’appellante, non rilevano in questa sede i principi formulati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, poiché si tratta della applicazione di una normativa dell’ordinamento nazionale, introdotta col codice del processo amministrativo, che si inserisce in un quadro normativo nel quale sono apprestati i rimedi di tutela spettanti, nel pieno rispetto del principio di effettività .
6. L’appellante ha inoltre impugnato la statuizione con cui il TAR ha condannato il Ministero al pagamento di 100 euro per le spese del giudizio di primo grado.
Egli ha lamentato la violazione dell’art. 92, comma secondo, del codice di procedura civile, degli articoli 1, 4, 5 e 11 del decreto ministeriale 20 luglio 2012, n. 140, e degli articoli 24, 36 e 111 della Costituzione, deducendo che il TAR non avrebbe neppure esplicitato le ragioni poste a base della sua statuizione e che si sarebbe così inciso negativamente sul diritto alla effettività della tutela giurisdizionale e sulla dignità e sul decoro della professione forense.
7. Tale censura risulta fondata e va accolta.
7.1. Per la pacifica giurisprudenza, il TAR ha ampi poteri discrezionali in ordine alla statuizione sulle spese e, se del caso, al riconoscimento, sul piano equitativo, dei giusti motivi per far luogo alla compensazione delle spese giudiziali, ovvero per escluderla (Cons. Stato, Ad. Plen., 24 maggio 2007, n. 8), con il solo limite, in pratica, che non può condannare alle spese la parte risultata vittoriosa in giudizio o disporre statuizioni abnormi (per tutte, Consiglio Stato, Sez. V, 28 ottobre 2015, n. 4936; Sez. III, 9 novembre 2016, 4655; Sez. IV, 3 novembre 2015, n. 5012; Sez. VI, 9 febbraio 2011, n. 891; Sez. IV, 22 giugno 2004, n. 4471; Sez. IV, 27 settembre 1993, n. 798).
Il giudice ben può tenere conto di tutte le circostanze del caso concreto, tra cui possono avere rilievo la natura del credito insoddisfatto (ad esempio, la sua natura alimentare), la durata dell’inadempimento, la ricerca di soluzioni extragiudiziarie per evitare la pendenza del contenzioso, la mancata esecuzione di precedenti sentenze già rese in sede di esecuzione, le questioni di carattere organizzativo quando si tratti di giudizi sostanzialmente di carattere seriale, l’esistenza di un diffuso contenzioso in materia, l’assenza delle risorse nell’attuale congiuntura economica e la difficoltà di disporre tempestivamente delle risorse necessarie per disporre i pagamenti.
Il TAR può dunque anche tener conto del fatto che sia stata chiesta l’ottemperanza ad un giudicato basato sulla violazione della legge n. 89 del 2001, che notoriamente ha comportato l’insorgenza di un notevole contenzioso basato su ricorsi che per la loro semplicità possono essere presentati sulla base di schemi precostituiti, anche in assenza di particolari considerazioni di carattere giuridico.
Il TAR – nel caso di accoglimento di un tale ricorso d’ottemperanza – può dunque compensare le spese del giudizio, con una valutazione insindacabile in sede d’appello, che di per sé non incide sul diritto alla effettività della tutela giurisdizionale (poiché le regole sulla statuizione sulle spese coesiste con le altre regole, miranti alla effettività della tutela) e neppure incide sulla dignità e sul decoro della professione forense: la decisione sulle spese non comporta di per sé una valutazione sull’operato del difensore o sulla qualità dei suoi scritti e attiene esclusivamente agli aspetti processuali sopra indicati.
Al riguardo, la sentenza di accoglimento del ricorso comporta comunque l’obbligo del soccombente di rimborsare alla parte vincitrice quanto effettivamente versato a titolo di contributo unificato, pur se tale obbligo non è esplicitato nella sentenza.
7.2. Tuttavia, qualora il TAR abbia disposto la condanna al pagamento delle spese, si deve tenere conto del decreto ministeriale n. 140 del 2012 e del decreto ministeriale 10 marzo 2014, n. 55 (‘Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione dei compensi per la professione forense, ai sensi dell’articolo 13, comma 6, della legge 31 dicembre 2012, n. 247’).
Ai fini della liquidazione del compenso si tiene anche conto “delle caratteristiche, dell’urgenza e del pregio dell’attività prestata, dell’importanza, della natura, della difficoltà e del valore dell’affare, delle condizioni soggettive del cliente, dei risultati conseguiti, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate” (art. 4, comma 1).
7.3. Tenuto conto di tale normativa, ritiene il Collegio che vada riformata la statuizione del TAR.
Nel caso di specie la liquidazione in primo grado delle spese di lite risulta manifestamente sproporzionata rispetto al valore medio delle tariffe professionali previste dal decreto ministeriale.
Pertanto, in considerazione dell’attività professionale svolta – di non particolare complessità – il capo di sentenza impugnato va riformato e, conseguentemente, l’Amministrazione deve essere condannata alle spese del primo grado del giudizio nella misura di 500 euro.
8. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto quanto al primo motivo e va accolto quanto al secondo, sicché, in parziale riforma della sentenza appellata, il Ministero va condannato al pagamento di complessivi euro 500 per spese del primo grado, oltre agli accessori di legge, con distrazione in favore del difensore dichiaratosi antistatario.
9. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del secondo grado

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta accoglie in parte l’appello n. 8117 del 2015 e, in parziale riforma della sentenza appellata, condanna il Ministero della giustizia al pagamento di euro 500 (incluso quanto già liquidato dal TAR) in favore dell’appellante, oltre agli accessori di legge, per le spese del primo grado del giudizio.
Respinge per il resto l’appello.
Compensa tra le parti le spese del secondo grado del giudizio.
Così deciso in Roma, presso la sede del Consiglio di Stato, Palazzo Spada, nella camera di consiglio del giorno 3 ottobre 2019, con l’intervento dei magistrati:
Luigi Maruotti – Presidente, Estensore
Luca Lamberti – Consigliere
Daniela Di Carlo – Consigliere
Alessandro Verrico – Consigliere
Roberto Caponigro – Consigliere

 

 

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