L’interesse ad impugnare in appello

Consiglio di Stato, Sezione terza, Sentenza 10 luglio 2020, n. 4452.

La massima estrapolata:

Nel processo amministrativo l’interesse ad impugnare in appello una sentenza di Tribunale amministrativo regionale si collega necessariamente alla soccombenza, anche parziale, nel relativo giudizio, mancando la quale l’impugnazione è inammissibile. La giurisprudenza ammette l’interesse della parte ad impugnare una sentenza al solo fine di ottenere una modificazione della sua motivazione solo allorché da quest’ultima possa dedursi un’implicita statuizione contraria all’interesse della parte medesima, nel senso che a questa possa derivare pregiudizio da motivi che, quale premessa necessaria della decisione, siano suscettibili di formare giudicato.

Sentenza 10 luglio 2020, n. 4452

Data udienza 28 maggio 2020

Tag – parola chiave: Processo amministrativo – Impugnazione – Appello – Interesse ad impugnare – Soccombenza – Rilevanza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Terza
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 9447 del 2019, proposto da Regione Puglia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Is. Fo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Ir. S.p.A., Coop. Soc. “Sa. Ch.” On., Da. Sa. S.r.l., in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati En. Fo. e Id. Fo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo Studio Legale Fo. in Roma, piazza (omissis);
per la riforma
della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Sezione Seconda n. 01155/2019, resa tra le parti.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio, ed il ricorso incidentale, di Ir. S.p.A., di Coop. Soc. “Sa. Ch.” On. e di Da. Sa. S.r.l.;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza del giorno 28 maggio 2020 il Cons. Giovanni Tulumello, e trattenuta la causa in decisione ai sensi dell’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito dalla legge 24 aprile 2020, n. 27;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso in appello notificato il 30 ottobre 2019, e depositato il successivo 19 novembre, la Regione Puglia ha impugnato la sentenza n. 1155/2019 del T.A.R. Puglia, sede di Bari, Sezione Seconda.
Si sono costitute in giudizio, la IR. S.p.A., la Coop. Soc. “Sa. Ch.” On. e la Da. Sa. S.r.l., le quali hanno altresì proposto appello incidentale, in relazione ai capi della sentenza impugnata che hanno respinto i motivi proposti in primo grado, limitatamente a quanto afferisce al solo divieto di esternalizzazione.
Con ordinanza n. 6334 del 20/12/2019 la Sezione ha accolto la domanda di sospensione cautelare degli effetti della sentenza impugnata, osservando che “nella ponderazione fra i confliggenti interessi deve prevalere il superiore interesse pubblico generale alla esigenza di garantire la salute degli ospiti delle residenze, in quanto la medesima esigenza motiva già la sottoposizione dell’attività in esame ad un regime autorizzatorio e di accreditamento, ai fini del finanziamento pubblico da parte del S.S.R., che sottrae gli operatori beneficiari alle ordinarie dinamiche di un libero mercato concorrenziale, ancorché regolato”.
Il ricorso è stato definitivamente trattenuto in decisione all’udienza del 28 maggio 2020.
2. La sentenza oggetto dell’odierno gravame ha annullato gli articoli 5.3 e 6.2 del regolamento della Regione Puglia n. 4 del 21 gennaio 2019 (“Regolamento regionale sull’Assistenza residenziale e semiresidenziale ai soggetti non autosufficienti – Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA) estensiva e di mantenimento – Centro diurno per soggetti non autosufficienti”) nella parte in cui impongono l’assunzione del personale alle dirette dipendenze del titolare della struttura.
I giudici di prime cure hanno respinto i primi due motivi di ricorso con i quali veniva dedotto “l’eccesso di delega da parte della fonte regolamentare impugnata rispetto all’articolo 7 della legge regionale 12 dicembre 2017 n. 53”, a mente del quale il regolamento attuativo deve prevedere standard strutturali, organizzativi e funzionali, nonché dei requisiti di esercizio compatibili con la normativa vigente e, in particolare, con le precedenti normative in materia di RSA, Residenza socio sanitaria assistenziale (RSSA).
Segnatamente, con il primo motivo, i ricorrenti in primo grado sostenevano che l’articolo 5.3. in violazione di tale criterio di “delega” avrebbe introdotto nuovi obblighi,, specie con riguardo ai limiti imposti alla tipologia di rapporto di lavoro tra il gestore della struttura e i lavoratori e in ordine alla facoltà di esternalizzare la gestione di alcuni servizi all’interno della struttura o la gestione stessa della struttura
Con il secondo motivo, i ricorrenti sostenevano che la violazione della delega di cui all’articolo 7 della legge regionale n. 53 del 2007 fosse rinvenibile anche nell’articolo 6. 2. del regolamento regionale n. 4 del 2019 che impone i requisiti minimi organizzativi anche ai centri diurni, pur non essendo questi ultimi oggetto della legge regionale n. 53 del 2007.
In via preliminare il TAR ha osservato che la norma attributiva del potere regolamentare esercitato, invero, è contenuta nella legge regionale 2 maggio 2017 n. 9, recante “Nuova disciplina in materia di autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio, all’accreditamento istituzionale e accordi contrattuali delle strutture sanitarie e socio – sanitarie pubbliche e private”.
Di talché, ha ritenuto di dover respingere il secondo motivo di ricorso in ragione del fatto che le strutture soggette ad autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio sono quelle elencate agli articoli 5 e 6 della L.R. 9/2017, tra cui si annoverano anche le strutture socio – sanitarie e semi – residenziali a ciclo diurno, quali i centri diurni di cui all’impugnato articolo 6.2.
Rispetto alla questione oggetto primo motivo di appello, il TAR non ha ravvisato alcuna violazione del criterio di delega, in quanto lo stesso va rinvenuto nella legge regionale n. 9 del 2017.
Infatti, il regolamento impugnato ha come oggetto la materia dell’autorizzazione e dell’accreditamento delle strutture sanitarie di cui, invero, la legge regionale n. 53 del 2017 si occupa soltanto marginalmente.
Il T.A.R. ha respinto, altresì, il terzo motivo di ricorso, con le quali le ricorrenti lamentavano la violazione del d.P.R. 14 gennaio 1997 (di attuazione dell’art. 8-ter del D.Lgs. 502/1992) in materia di principi generali sui requisiti minimi per l’autorizzazione, rilevando che il regolamento impugnato avrebbe imposto prescrizioni circa le tipologie di rapporti di lavoro e di esternalizzazione dei servizi non previste dal predetto d.P.R. 14 gennaio 1997.
Sul punto, i giudici hanno rilevato che il d.P.R. 14 gennaio 1997 è atto di approvazione dei requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi “minimi” richiesti per l’esercizio delle attività sanitarie da parte delle strutture pubbliche e private, che fa espressamente salva la competenza delle regioni nel disciplinare la materia delle autorizzazioni sanitarie e, per l’effetto, nulla esclude che le Regioni possano prevedere requisiti ulteriori, nel rispetto dei principi generali stabiliti dal suddetto d.P.R.
Con il quarto motivo di ricorso, i ricorrenti deducevano la violazione della libertà di iniziativa economica di cui all’art. 41 Cost., asserendo che “né la tipologia di rapporto di lavoro né la modalità di gestione (esternalizzata o meno) della struttura incidono sulla qualità delle prestazioni, la quale, dal punto di vista del personale, è garantita dalla qualifica professionale e dalla quantità di personale, non certo dal tipo di rapporto che lega quest’ultimo al titolare dell’autorizzazione”.
Sul punto, i giudici di prime cure, nel respingere tale motivo, hanno ritenuto che la formulazione dei precetti imponesse l’individuazione dei possibili significati della norma, al fine di verificare se fosse possibile selezionarne uno costituzionalmente compatibile.
A tal proposito, i primi giudici hanno concluso nel senso di ritenere che le norme regolamentari oggetto del ricorso pongono il divieto di esternalizzare la gestione dell’attività sanitaria o socio – sanitaria, proseguendo poi rappresentando che “seppur all’esito di uno sforzo interpretativo, il regolamento non debba essere inteso nel senso (correttamente) temuto dal ricorrente ovvero che anche servizi ulteriori e non rientranti affatto nell’attività sanitari e socio – sanitaria non possano essere esternalizzati: il regolamento ha indicato quei particolari servizi accessori alla predetta attività che possono essere esternalizzati”, con la precisazione che i servizi che esulano completamente dall’oggetto dell’attività autorizzata possono essere esternalizzati in quanto non ricompresi nel divieto.
Per ragioni di completezza, il T.A.R. ha altresì affermato che “ai sensi della normativa regionale primaria, in altre parole, è ben possibile, come avveniva in passato, che non vi sia identità fra titolare e gestore della struttura, purché entrambi siano parte del rapporto autorizzatorio con la pubblica Amministrazione il che val quanto dire che entrambi sono in possesso dei requisiti di professionalità e moralità richiesti dalla legge”, in quanto il concetto di “terzo” utilizzato dal legislatore sarebbe da intendersi nel sesso di soggetto non autorizzato, ossia estraneo al predetto rapporto con la P.A.
A comprova di quanto sopra, aggiunge il TAR, l’autorizzazione all’esercizio, infatti, è rilasciata sia in forma singola (titolare e gestore coincidenti) sia associata (titolare e gestore non coincidenti).
I ricorrenti deducevano, inoltre, l’illegittimità delle predette disposizioni anche sotto il profilo della disparità di trattamento nei confronti delle RSA e dei centri diurni di aziende sanitarie locali e di A.S.P.
Il T.A.R., osservando che, probabilmente si tratta di una disposizione ultronea, ha ritenuto anche tale censura priva di fondamento, in quanto, nel caso di esternalizzazione della gestione di attività sanitarie da parte di amministrazione pubbliche, occorre fare ricorso alle procedure di evidenza pubblica, che garantiscono quel controllo sui requisiti di moralità e professionalità .
Con il VI motivo, i ricorrenti lamentavano la violazione dell’articolo 8 della legge regionale n. 53 del 2017, che prevede la consultazione con gli operatori del settore e relative associazioni di categoria e, il conseguente, difetto di motivazione tenuto conto che la Regione, nel procedimento di redazione del regolamento impugnato, avrebbe totalmente ignorato le specifiche note con cui l’AGCI – Puglia aveva rappresentato i profili d’illegittimità dedotti davanti al TAR dai ricorrenti.
Richiamando copiosa giurisprudenza (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. III, n. 2870/2014), il T.A.R. ha respinto anche tale censura sostenendo il potere dell’amministrazione di adottare unilateralmente le proprie determinazioni conclusioni anche in caso di avvio di un’attività di consultazione e confronto con le associazioni di categoria.
Per contro, i giudici di prime cure hanno accolto il quarto motivo di ricorso, relativo all’illegittimità dell’obbligo di assunzione del personale alle dirette dipendenze del titolare della struttura, rilevando che “l’opinabilità della funzionalità della tipologia di rapporto di lavoro all’elevazione della qualità delle prestazioni rende eccessivamente lesivo della libertà d’impresa il requisito in esame, traducendosi in un’ingerenza nelle scelte di autonomia imprenditoriale circa il tipo di rapporto di lavoro instaurato con il personale inammissibile in quanto, non solo non prevista dalla legge, ma, per così dire, “a risultato non garantito” in termini di elevazione della tutela della salute” e per l’effetto deve essere annullato”.
In conclusione, il TAR ha rilevato l’improcedibilità per sopravvenuta carenza d’interesse del quinto motivo di ricorso in quanto l’annullamento della su citata disposizione regolamentare travolge per invalidità derivata ad effetto caducante anche la previsione che limita il ricorso a contratti a tempo determinato, con conseguente.
3. La Regione appellante deduce, con un’unica, articolata, censura, “Illegittimità in parte qua della sentenza per violazione di plurime disposizioni della L. R. 9/2017. Erroneità e contraddittorietà della motivazione”.
L’appello è relativo unicamente al capo di sentenza concernente le disposizioni regolamentari che vietano ai legali rappresentanti delle RSA private e dei centri diurni per non autosufficienti “di esternalizzare la gestione della struttura a soggetti terzi”, permettendo l’esternalizzazione solo del servizio mensa, del servizio lavanderia e del servizio di pulizia.
Tale capo di sentenza ha in realtà respinto la relativa censura proposta nel giudizio di primo grado: all’esito, tuttavia, di un’operazione interpretativa – che ammette l’esternalizzazione anche dei servizi propriamente sanitari, purché a soggetto anch’egli autorizzato – che la Regione appellante ritiene erronea, in quanto contrastante con la disciplina posta dalla normativa regionale di rango primario.
La Regione contesta, in particolare, la conclusione del sillogismo argomentativo del primo giudice: “se tutti i soggetti che intendono gestire attività sanitaria o socio – sanitaria soggetta ad autorizzazione devono chiederne il rilascio all’autorità competente (articolo 8, comma 1); – se l’autorizzazione all’esercizio è rilasciata alla persona fisica o giuridica, in forma singola o associata, per lo svolgimento di una determinata attività sanitaria o socio – sanitaria mediante un complesso organizzato di beni e/o persone conforme ai requisiti minimi stabiliti dal regolamento regionale (articolo 9, comma 1); … allora il titolare della struttura, da intendersi quale soggetto titolare della proprietà o di altro titolo che ne legittimi la disponibilità della struttura intesa quale azienda sanitaria (e dunque complesso di beni e/o persone conforme ai requisiti minimi), può senz’altro affidarne la gestione ad un altro soggetto, che, ovviamente deve essere anch’egli autorizzato, visto quanto disposto dall’articolo 8, comma 1. Ai sensi della normativa regionale primaria, in altre parole, è ben possibile, come avveniva in passato, che non vi sia identità fra titolare e gestore della struttura, purché entrambi siano parte del rapporto autorizzatorio con la pubblica Amministrazione il che val quanto dire che entrambi sono in possesso dei requisiti di professionalità e moralità richiesti dalla legge”.
Deduce in contrario l’appellante che “in base al citato art. 9 co. 1 L.R. n. 9/2017 e s.m.i., di cui il Giudice territoriale non ha tenuto conto, la persona fisica o giuridica in capo a cui è rilasciato il provvedimento autorizzativo (oltre che, eventualmente, l’accreditamento istituzionale) di una struttura sanitaria o socio-sanitaria è l’unico soggetto legittimamente autorizzato alla gestione ed al funzionamento della stessa, non essendo possibile scindere la titolarità della struttura dalla gestione dell’attività “.
La Regione non impugna dunque i capi della sentenza che, accogliendo le censure dei ricorrenti, hanno annullato le previsioni regolamentari impugnate.
4. Preliminarmente deve essere indagato l’interesse della Regione appellante a coltivare l’unico motivo proposto, posto che il giudice di primo grado ha ritenuto infondata, e conseguentemente rigettato, la relativa censura
Nella giurisprudenza di questo Consiglio di Stato si afferma in proposito che: “l’interesse ad impugnare in appello una sentenza di Tribunale amministrativo regionale si collega necessariamente alla soccombenza, anche parziale, nel relativo giudizio, mancando la quale l’impugnazione è inammissibile. La giurisprudenza ammette l’interesse della parte ad impugnare una sentenza al solo fine di ottenere una modificazione della sua motivazione solo allorché da quest’ultima possa dedursi un’implicita statuizione contraria all’interesse della parte medesima, nel senso che a questa possa derivare pregiudizio da motivi che, quale premessa necessaria della decisione, siano suscettibili di formare giudicato (C.d.S., Sez. IV, 16 ottobre 1998, n. 1305; 29 gennaio 2008, n. 248; Sez. V, 17 luglio 2004, n. 5127)” (così la sentenza della V Sezione, n. 5883/2013; in senso ana la successiva sentenza n. 6207/2013).
Ritiene il Collegio che nel caso di specie il capo di sentenza gravato con l’appello principale lasci residuare, nonostante la pronuncia formale di rigetto, un interesse alla sua impugnazione da parte dell’amministrazione apparentemente vittoriosa in primo grado, dal momento che l’effetto conformativo della motivazione determina in concreto una lesione dell’interesse portato dalla parte stessa, poiché comporta, sui singoli rapporti a valle, conseguenze disciplinari (per le ragioni e nei termini di seguito indicati) diverse ed opposte rispetto a quelle che la stessa amministrazione ha inteso prefigurare a presidio dell’interesse pubblico alla tutela della salute degli ospiti delle residenze.
5. Nel merito, la censura dedotta con l’appello principale è fondata.
La disposizione regolamentare censurata prevede che “Al legale rappresentante della RSA è fatto divieto di esternalizzare la gestione della struttura a soggetti terzi… Le uniche forme possibili di gestione esternalizzata riguardano il sevizio mensa, il servizio lavanderia e il servizio di pulizia” (articolo 5.3); ana requisito è previsto dall’articolo 6.2 per i centri diurni per soggetti non autosufficienti: “Al legale rappresentante del Centro diurno è fatto divieto di esternalizzare la gestione della struttura a soggetti terzi… Le uniche forme possibili di gestione esternalizzata riguardano il sevizio mensa, il servizio lavanderia e il servizio di pulizia”.
Deduce, condivisibilmente, l’appellante che “l’affidamento della gestione da parte di società private titolari di autorizzazione ad altri soggetti privati, non garantisce nessun controllo pubblico su questi ultimi”.
La motivazione della richiamata ordinanza cautelare resa dalla Sezione ha già chiarito che l’esigenza di garantire la salute degli ospiti delle residenze “motiva già la sottoposizione dell’attività in esame ad un regime autorizzatorio e di accreditamento, ai fini del finanziamento pubblico da parte del S.S.R., che sottrae gli operatori beneficiari alle ordinarie dinamiche di un libero mercato concorrenziale, ancorché regolato”.
Il divieto di esternalizzazione è diretta attuazione del precetto contenuto nell’art. 9 della legge regionale pugliese n. 9 del 2017: “L’autorizzazione all’esercizio è rilasciata alla persona fisica o giuridica, in forma singola o associata, per lo svolgimento di una determinata attività sanitaria o socio-sanitaria mediante un complesso organizzato di beni e/o persone conforme ai requisiti minimi stabiliti dal regolamento regionale. 2. L’autorizzazione all’esercizio, unitamente al complesso organizzato di beni e/o persone, può essere trasferita ad altro soggetto in conseguenza di atti di autonomia privata con provvedimento dell’ente competente, previa verifica della permanenza dei requisiti di cui al comma 1, nonché l’insussistenza in capo all’altro soggetto di una delle ipotesi di decadenza previste nei commi 4 e 5, e del rispetto delle disposizioni di cui all’articolo 2112 del codice civile” (i commi successivi regolano ulteriori vicende successorie, ma sempre in presenza della costante condizione del controllo pubblico sull’autorizzazione).
In sostanza, la norma primaria prevede, coerentemente all’esigenza di controllo della conformità all’interesse pubblico, che la modifica soggettiva della gestione avvenga mediante il trasferimento del titolo autorizzatorio che abilita alla gestione medesima.
Le disposizioni regolamentari in esame dettano una regola conforme a tale assetto, prevedendo il divieto di esternalizzazione dei servizi che attengono all’assistenza diretta ai pazienti.
Ammettere, peraltro in via interpretativa, che tale divieto non copra anche l’ipotesi di esternalizzazione ad altro soggetto autorizzato, è contrario sia alla lettera che alla ratio della richiamata disposizione primaria, nonché al sistema dell’autorizzazione sanitaria come disciplinato in ambito di legislazione statale dall’art. 8-ter del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502.
Solo un’interpretazione letterale delle disposizioni regolamentari in esame, che escluda la possibilità di aggirare la ratio dell’istituto dell’autorizzazione, consente infatti di ritenerle conformi ai parametri normativi invocati nel ricorso di primo grado e nell’appello incidentale.
6. In tema di mera autorizzazione (id est, prescindendo dal rapporto di accreditamento) la Sezione ha infatti più volte ricordato, anche nell’ottica del bilanciamento con il diritto di libertà economica garantito dall’art. 41 Cost. (invocato dall’appello incidentale), le esigenze pubblicistiche cui è preordinato l’istituto in parola (si veda ultimo la sentenza n. 1156 del 2020) e, in particolare, ha chiarito che “la disciplina di settore, in una visione sistemica, sia incentrata su una valutazione rigorosa del possesso in capo alla parte istante dei requisiti prescritti, valutazione che va svolta in via preventiva e che condiziona il rilascio dell’autorizzazione tanto alla realizzazione della struttura che alla sua piena operatività, rappresentando la fase della detta verifica uno snodo dirimente – siccome funzionalmente connesso al superiore interesse pubblico generale alla tutela del diritto inviolabile alla salute – affinché si determini l’effetto abilitativo all’esercizio” (sentenza n. 5605/2019).
Il provvedimento autorizzatorio non può pertanto intendersi quale attributo di natura meramente formale, ma è correlato all’operatività della struttura in chiave di verifica necessariamente preventiva e propedeutica, sicché non possono ricavarsi in via interpretativa le eccezioni al divieto ritenute dal primo giudice.
La sentenza di questa Sezione n. 1589/2019, ha poi osservato che “il legislatore, nel sottoporre anche il rilascio della mera autorizzazione sanitaria alla previa valutazione di compatibilità con la programmazione regionale, ha certamente privilegiato la tutela dei profili pubblici, ontologicamente connessi alla attività sanitaria, quali il diritto alla salute ed alla accessibilità a cure di standard qualitativo adeguato, e, quindi, ha ritenuto che il vincolo della programmazione di tale attività fosse il mezzo più idoneo, da un lato, a garantire la equa distribuzione sul territorio di varie tipologie di centri di cura e, dall’altro, ad evitare il fenomeno deteriore di un’offerta di prestazioni sanitarie con alta remunerazione, che risulti sovradimensionata rispetto al fabbisogno effettivo della collettività e, quindi, dia luogo anche a processi di eccessiva concorrenza, che potrebbero portare ad un inaccettabile caduta del livello della prestazione sanitaria o, comunque, alla utilizzazione di tecniche non virtuose di orientamento della scelta dell’assistito, parimenti non compatibili con la tutela del diritto alla salute del cittadino (v., ex plurimis, Cons. St., sez. III, 10 settembre 2018, n. 5310)”.
Non è pertanto indifferente al dato normativo primario, e agli interessi cui questo risulta funzionale, la rispondenza dell’attività autorizzata al disegno programmatorio finalizzato ad assicurare un elevato livello delle prestazioni: consentire in via interpretativa l’esternalizzazione della gestione ad altri soggetti autorizzati potrebbe determinare, sotto questo profilo, fenomeni di accorpamento o di oligopolio, o al contrario di parcellizzazione dell’offerta, tali da snaturare la verifica di conformità all’interesse pubblico operata a monte.
È poi appena il caso di osservare che una simile eventualità si manifesta non solo in caso di esternalizzazione dell’intera gestione della struttura, ma anche nell’ipotesi di affidamento in appalto dei servizi di infermeria e di assistenza tramite operatori socio sanitari.
Le parti appellanti incidentali osservano in contrario che l’appalto parziale dei servizi non determina alcuna traslazione in capo ad un soggetto diverso dal titolare della struttura della gestione della struttura medesima: la quale, al contrario, resterebbe in capo al titolare dell’autorizzazione.
Tale argomento prova troppo, perché non tiene conto del dirimente rilievo che se in tal modo sul piano formale l’imputazione della gestione rimarrebbe in effetti in capo al titolare, tuttavia sul piano sostanziale la prestazione dei servizi (oggetto di autorizzazione) verrebbe resa da un diverso soggetto.
7. Per le ragioni appena esposte l’appello principale è fondato; in conseguenza, è infondato il motivo del ricorso di primo grado con cui si deduceva l’illegittimità del divieto di esternalizzazione non già per la motivazione ritenuta dal T.A.R., ma per le illustrate ragioni di conformità di tali prescrizioni regolamentari ai parametri (anche costituzionali) che costituiscono il paradigma normativo della fattispecie, e rispetto ai quali i ricorrenti in primo grado hanno invece – infondatamente – dedotto una relazione di contrasto (riproposta con l’odierno appello incidentale).
Per le medesime ragioni è infondato il primo motivo dell’appello incidentale, con cui si deducono i vizi delle disposizioni regolamentari impugnate riconducibili a tali, pretesi profili di contrasto.
8. Con il secondo motivo dell’appello incidentale si censura il capo di sentenza che ha rigettato il motivo di ricorso concernente l’eccesso di potere regolamentare.
Il mezzo è infondato.
Si è osservato che le disposizioni regolamentari in esame si pongono in rapporto di conformità e coerenza con la normativa primaria regionale.
L’art. 3, comma 1, lett. b), della legge regionale 2 maggio 2017, n. 9 (recante “Nuova disciplina in materia di autorizzazione alla realizzazione e all’esercizio, all’accreditamento istituzionale e accordi contrattuali delle strutture sanitarie e socio – sanitarie pubbliche e private”) stabilisce che “la Regione con appositi regolamenti… stabilisce i requisiti per l’autorizzazione all’esercizio e i requisiti per l’accreditamento istituzionale”.
È pertanto evidente la conformità del contenuto delle disposizioni censurate alla perimetrazione dell’ambito materiale delineato dalla norma attributiva del potere regolamentare: dal momento che si controverte proprio in materia di requisiti per la gestione di attività soggette a regime autorizzatorio.
Proprio perché connotata dalla specialità dell’oggetto rispetto alla disciplina organica di settore, come riconoscono gli appellanti, la successiva legge regionale n. 53/2017 non può assumere rilevanza quale parametro ai fini che qui interessano (né può valorizzarsi il dato cronologico, proprio perché la diversità di oggetto impedisce che possa configurarsi un’antinomia).
L’inconferenza del richiamo alla L.R. n. 53/2017 determina l’infondatezza anche del terzo motivo di appello incidentale, fondato sull’assunto, invero, formale, secondo cui “la l.r. n. 53/2017 limita la delega regolamentare in materia alle sole strutture residenziali, non a quelle semiresidenziali; sicché le limitazioni alla libertà di organizzare l’impresa sono illegittime almeno in relazione ai centri diurni per non autosufficienti (estranei all’oggetto della delega)”.
9. Con il quarto motivo dell’appello incidentale si ripropone la censura già avanzata con il terzo motivo di primo grado, di “violazione del D.P.R. 14 gennaio 1997 e dell’art. 117, co. 3, Cost.”.
Ad avviso degli appellanti incidentali la sentenza di primo grado, nell’affermare che “la Regione può introdurre requisiti organizzativi più stringenti rispetto ai requisiti minimi previsti dallo Stato con il D.P.R. 14 gennaio 1997, giacché è titolare di competenza concorrente in materia”, avrebbe frainteso la censura, che in realtà si doleva del fatto che “che il “divieto di esternalizzazione” di cui si discute
non è un requisito organizzativo”.
Alla luce delle considerazioni fin qui esposte ritiene il Collegio che le disposizioni in esame, nel prevedere il divieto di esternalizzazione, abbiano disciplinato proprio gli standard strutturali, organizzativi e funzionali delle attività in questione, nonché i relativi requisiti di esercizio.
Il requisito organizzativo più pregnante è dato proprio dalla regola della corrispondenza soggettiva ed oggettiva fra titolarità della struttura ed erogazione delle relative prestazioni, perché in tal modo – quanto meno sul piano astratto, che a fini qualificatori qui viene in considerazione – si assicura la tutela degli interessi pubblici sopra richiamati, che informano la disciplina dell’istituto in esame.
Anche questa censura è pertanto infondata.
10. Con l’ultimo motivo dell’appello incidentale ci si duole di un difetto di partecipazione delle associazioni di categoria all’elaborazione del regolamento impugnato.
In particolare, gli appellanti incidentali si dolgono del fatto che le osservazioni proposte nel corso del procedimento di formazione del regolamento “seppur puntuali e pertinenti, sono state totalmente ignorate dalla Regione che non si è premurata né di citarle nella delibera di G.R. di approvazione del r.r. n. 4/2019, né di motivare per discostarsene o confutarle”.
Osserva in proposito il Collegio che l’adempimento degli obblighi partecipativi non si spinge fino a pretendere il recepimento, nel merito, dei relativi apporti: sicché, anche in considerazione della natura dell’atto di cui si discute, e del relativo standard motivazionale per come normativamente disciplinato, non sussisteva in capo all’amministrazione alcuno specifico onere di motivazione in merito alle ragioni che hanno indotto a non aderire alle osservazioni presentate dalle associazioni di categoria.
11. L’appello incidentale è pertanto infondato in relazione a tutti i suoi motivi, e come tale va respinto.
In accoglimento dell’appello principale, va dunque confermata la sentenza di primo grado, ed il ricorso di primo grado va rigettato, in parte qua, con la diversa motivazione indicata nella presente sentenza.
Sussistono le condizioni di legge, avuto riguardo alla complessità delle questioni dedotte, per disporre la compensazione fra le parti delle spese del giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, accoglie l’appello principale e rigetta l’appello incidentale, e per l’effetto conferma con diversa motivazione la sentenza impugnata.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2020, tenutasi mediante collegamento da remoto in videoconferenza (ai sensi dell’art. 84, comma 6, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito dalla legge 24 aprile 2020, n. 27), con l’intervento dei magistrati:
Marco Lipari – Presidente
Massimiliano Noccelli – Consigliere
Raffaello Sestini – Consigliere
Solveig Cogliani – Consigliere
Giovanni Tulumello – Consigliere, Estensore

 

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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