Non è legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che non si munisca delle abilitazioni richieste dal datore

Corte di Cassazione, civile, Sentenza|31 marzo 2021| n. 8953.

Non è legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che non si munisca delle abilitazioni richieste dal datore qualora tale obbligo, oltre che richiedere un importante impegno economico al lavoratore, derivi esclusivamente da una scelta dirigenziale della società, e non da specifiche esigenze lavorative, dettate da obblighi normativi o contrattuali. Il comportamento tenuto dal dipendente non è, pertanto, tale da compromettere la fiducia del datore di lavoro e da far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali.

Sentenza|31 marzo 2021| n. 8953

Data udienza 16 settembre 2020

Integrale

Tag/parola chiave: Licenziamento per giusta causa – Valutazione della condotta tenuta in concreto dal lavoratore – Compatibilità con la prosecuzione del rapporto di lavoro – Illegittimità del licenziamento – Sproporzione della sanzione rispetto all’addebito – Censure di merito – Rigetto

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA
sul ricorso 29237/2018 proposto da:
(OMISSIS) S.R.L., gia’ (OMISSIS) S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato (OMISSIS), che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3135/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 19/07/2018 r.g.n. 1274/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/09/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LEO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato (OMISSIS), per delega verbale Avvocato (OMISSIS);
udito l’Avvocato (OMISSIS), per delega verbale Avvocato (OMISSIS).

FATTI DI CAUSA

(OMISSIS), dipendente della (OMISSIS) S.p.A. dall’1.4.2009, con la qualifica di pilota in 2, divenuto, successivamente “Primo Ufficiale”, ha proposto ricorso, ai sensi della L. n. 92 del 2012, dinanzi il Tribunale di Roma, Sezione lavoro, nei confronti della societa’ datrice, chiedendone la condanna alla reintegrazione di esso ricorrente nel posto di lavoro, con il versamento di 12 mensilita’ della retribuzione globale di fatto, nella misura di Euro 38.327,00 – somma comprensiva della indennita’ di volo, della L. n. 300 del 1970, ex articolo 18, comma 4 – o, in subordine, la condanna al pagamento di una indennita’ risarcitoria pari a 24 mensilita’ sulla base della retribuzione globale di fatto, ex articolo 18, comma 5, della medesima legge. Ha precisato di essere stato licenziato “per giusta causa” con lettera del 21.9.2015 e di avere impugnato il licenziamento con lettera inviata il 29.10.2015 e che, al momento del licenziamento, la societa’ aveva piu’ di 15 dipendenti nel Comune di Roma e, comunque, piu’ di 60 nel territorio nazionale.
Il Tribunale di Roma, con ordinanza n. 12029/2016, ha dichiarato risolto il rapporto di lavoro tra le parti dal 21.9.2015, sottolineando, comunque, che il licenziamento era da considerarsi illegittimo e, per l’effetto, ha condannato la societa’ datrice al pagamento, in favore del ricorrente, di una indennita’ risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto (depurata della c.d. indennita’ di volo), pari a 21 mensilita’, oltre interessi e rivalutazione, come per legge, dal 21.9.2015 al soddisfo.
Con ricorso depositato il 2.12.2016, l’ (OMISSIS) ha proposto opposizione avverso l’ordinanza, chiedendo che venisse riconosciuto che il mancato adempimento al comando impartito dalla societa’ (di conseguire, a proprie spese, le abilitazioni “off shore” e “aerial mountain work” entro e non oltre il 31.12.2014) non e’ in se’ illegittimo; che sussiste uno specifico obbligo dell’azienda di rimborsare al lavoratore i costi sopportati per il conseguimento di abilitazioni da essa richieste; ed ha altresi’ censurato la decisione nella parte in cui ha escluso l’indennita’ di volo dalla quantificazione del risarcimento del danno, chiedendo, in via principale, l’applicazione dell’articolo 18, comma 4, della predetta Legge e, quindi, l’annullamento del licenziamento e la reintegra, con la condanna della datrice al pagamento di dodici mensilita’ della retribuzione globale di fatto, comprensiva dell’indennita’ di volo, nonche’ al versamento dei contributi.
Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 2692/2018, ha confermato l’ordinanza impugnata in ordine alla risoluzione del rapporto in data 21.9.2015 ed alla declaratoria di illegittimita’ del licenziamento intimato con lettera in pari data ed ha, inoltre, condannato la (OMISSIS) S.p.A. al pagamento in favore dell’ (OMISSIS) di una indennita’ risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto, pari a 21 mensilita’, quantificata in Euro 75.486,60, comprendendo nella stessa l’indennita’ di volo, oltre interessi e rivalutazione dalla risoluzione del rapporto al soddisfo. Avverso la sentenza la societa’ datrice ha proposto reclamo, respinto dalla Corte di Appello di Roma, con sentenza depositata il 19.7.2018, in quanto, seppure costituisce una forma di infrazione rilevante dal punto di vista disciplinare l’avere l’ (OMISSIS) disatteso quanto prescritto dalla societa’, tuttavia, “a seguito di un puntuale esame di tutti gli elementi del fatto, deve ritenersi che l’infrazione commessa” non possa essere “considerata di gravita’ tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro”, non sussistendo “proporzionalita’ tra la condotta contestata e la sanzione irrogata”; e cio’, perche’ “l’obbligo di munirsi delle abilitazioni anzidette, oltre che richiedere un importante impegno economico al lavoratore, deriva esclusivamente da una scelta dirigenziale della societa’, e non da specifiche esigenze lavorative, dettate da obblighi normativi o contrattuali”; pertanto, “il relativo rifiuto ad ottemperare, addebitato al lavoratore, deve essere considerato, in termini di gravita’ della condotta, non idoneo a configurare una giusta causa di licenziamento ex articolo 2119 c.c.”.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la (OMISSIS) S.r.l., gia’ (OMISSIS) S.p.A., articolando tre motivi, cui (OMISSIS) ha resistito con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si censura, in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2119 c.c.; articoli 5 e 49 del CCNL di settore in ordine alla legittimita’ del licenziamento e si lamenta, in particolare, che la Corte territoriale avrebbe omesso di rilevare che “Quel che viene additato laconicamente come comando altro non e’ se non una chiara espressione del potere direttivo datoriale, al quale e’ stato opposto un rifiuto tanto ingiustificato quanto pretestuoso, cosi’ realizzandosi una chiara ipotesi di grave insubordinazione, tale da permettere di ricorrere all’esercizio del provvedimento espulsivo, assunto al termine del procedimento disciplinare ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2119 c.c.”. Si deduce, inoltre (v., in particolare, le pagg. 8 e segg. del ricorso), che una lettura normativamente orientata avrebbe suggerito l’applicazione alla fattispecie degli articoli 5 e 49 CCNL, “in quanto la societa’ ha ben evidenziato le esigenze che legittimavano la partecipazione ai corsi “Off shore” anche e soprattutto ai sensi e per gli effetti dei predetti articoli che impongono al pilota di “osservare le disposizioni ed i regolamenti impartiti dalla Compagnia entro i limiti di legge e della presente normativa” e che, pertanto, la insubordinazione di cui si tratta sostanzia la “giusta causa” del licenziamento, in quanto posta in essere per contrastare un comando legittimo.
2. Con il secondo motivo si denunzia, in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 8, per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in ordine al requisito dimensionale aziendale, perche’ la Corte di merito non avrebbe motivato sul fatto che, dall'”estratto dell’organico della societa’ allegato alla data del 21.9.2015″, emergerebbe che la datrice di lavoro, al momento del licenziamento, non avesse alle sue dipendenze oltre sessanta lavoratori: la qual cosa “preclude l’applicazione del regime sanzionatorio previsto dalla L. n. 300 del 1970, articolo 18, comma 4, erroneamente invocato in questa sede, proprio tenuto conto del tenore letterale dell’articolo 18, comma 8”.
3. Con il terzo motivo si deduce, in riferimento all’articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, articolo 18, commi 4 e 5, “in ordine alle pretese dell’ (OMISSIS) ed altresi’ sul calcolo della retribuzione globale di fatto”. Piu’ specificamente, riguardo alla prima censura, si lamenta che i giudici di secondo grado “in maniera del tutto acritica e senza motivare adeguatamente il loro convincimento” si sarebbero “limitati all’immotivato decisum in poche righe”, affermando che “Resta assorbito il terzo motivo di reclamo relativo alle conseguenze economiche dell’impugnato licenziamento, risultando anche sotto tale profilo perfettamente corretto il profilo motivazionale della sentenza reclamata ne’ sono emersi ulteriori elementi da valutare in ordine alla quantificazione del risarcimento”. Riguardo alla seconda censura, si osserva che la Corte distrettuale avrebbe errato nella quantificazione dell’indennita’ da corrispondere al lavoratore della L. n. 300 del 1970, ex articolo 18, comma 5, nella quale ha ricompreso anche l’indennita’ di volo, senza tenere conto del fatto che la societa’ aveva rappresentato che, ai sensi degli articoli 16, 18 e segg. del CCNL di settore, la corresponsione di tale indennita’ e’ strettamente correlata all’effettivo svolgimento di attivita’ di volo e, pertanto, non costituisce un elemento fisso della retribuzione globale di fatto, dovendo essere da questa scomputata ai fini del calcolo dell’indennita’ risarcitoria.
1.1. il primo motivo – inammissibile relativamente alla seconda parte della censura, perche’ la societa’ ricorrente non ha prodotto, ne’ trascritto, ne’ indicato tra i documenti offerti in comunicazione unitamente al ricorso di legittimita’, in violazione del disposto di cui all’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 6, il CCNL di categoria, del quale si denunzia la violazione relativamente agli articoli 5 e 49: e cio’, in spregio del principio, piu’ volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimita’ di controllare ex actis la veridicita’ delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (tra le molte, con arresti costanti, Cass. n. 14541/2014), poiche’ il ricorso per cassazione deve contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013) – non e’ fondato quanto alla prima doglianza (che investe la asserita violazione dell’articolo 2119 c.c.). Al proposito, va premesso che la giusta causa di licenziamento e’ una nozione di legge che si viene ad inscrivere in un ambito di disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi “normativi” e di clausole generali (Generalklauseln) correttezza (articolo 1175 c.c.); obbligo di fedelta’, lealta’, buona fede (articolo 1375 c.c.); giusta causa, appunto (articolo 2119 c.c.) – il cui contenuto, elastico ed indeterminato, richiede, nel momento giudiziale e sullo sfondo di quella che e’ stata definita la “spirale ermeneutica” (tra fatto e diritto), di essere integrato, colmato, sia sul piano della quaestio facti che su quello della quaestio iuris, attraverso il contributo dell’interprete, mediante valutazioni e giudizi di valore desumibili dalla coscienza sociale o dal costume o dall’ordinamento giuridico o da regole proprie di determinate cerchie sociali o di particolari discipline o arti o professioni, alla cui stregua poter adeguatamente individuare e delibare altresi’ le circostanze piu’ concludenti e piu’ pertinenti rispetto a quelle regole ed a quelle valutazioni, oltre a quei giudizi di valore, e tali non solo da contribuire, mediante la loro sussunzione, alla prospettazione e configurabilita’ della tota res (realta’ fattuale e regulae iuris), ma da consentire, inoltre, al giudice di pervenire, sulla scorta di detta complessa realta’, alla soluzione piu’ conforme al diritto, oltre che piu’ ragionevole e consona.
Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura di norma giuridica, come in piu’ occasioni sottolineato da questa Corte, e la disapplicazione delle stesse e’ deducibile in sede di legittimita’ come violazione di legge. Pertanto, l’accertamento della ricorrenza, in concreto, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, e’ sindacabile nel giudizio di legittimita’, a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards” conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realta’ sociale (cfr. Cass. nn. 14319/2017; 25044/15; 8367/2014; 6498/2012; 5095/11). E cio’, in quanto, il giudizio di legittimita’ deve estendersi pienamente, e non solo per i profili riguardanti la logicita’ e la completezza della motivazione, al modo in cui il giudice di merito abbia, in concreto, applicato una clausola generale, perche’ nel farlo, compie, appunto, un’attivita’ di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma, dando concretezza a quella parte mobile della stessa che il legislatore ha introdotto per consentire l’adeguamento ai mutamenti del contesto storico-sociale (Cass., SS.UU., n. 2572/2012).
Nel motivo di ricorso qui in esame, le censure formulate alla sentenza della Corte di Appello appaiono inconferenti, in quanto non evidenziano gli “standards” dai quali il Collegio di merito si sarebbe discostato. E, pertanto, non risulta, in sostanza, inciso da errores in iudicando l’iter decisionale della Corte di merito – la quale ha operato una corretta operazione di sussunzione, con puntuali richiami alla giurisprudenza di legittimita’ -, perche’ la sentenza impugnata si sofferma sul fatto che il comportamento del dipendente non risulta incompatibile con l’impossibilita’ di prosecuzione del rapporto di lavoro e non integra la giusta causa di recesso, mancando la proporzionalita’ tra la dedotta “disobbedienza” e la sanzione irrogata.
Ed invero, poiche’, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, il licenziamento disciplinare e’ giustificato nei casi in cui i fatti attribuiti al lavoratore rivestano il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da ledere irrimediabilmente l’elemento fiduciario, il giudice di merito deve valutare gli aspetti concreti che attengono principalmente alla natura del rapporto di lavoro, alla posizione delle parti, al nocumento arrecato, alla portata soggettiva dei fatti, ai motivi ed all’intensita’ dell’elemento intenzionale o di quello colposo (v., ex plurimis, Cass. n. 25608/2014). E, nella fattispecie, i giudici di seconda istanza, nella valutazione della proporzionalita’ tra illecito disciplinare e sanzione applicata, si sono attenuti a tale insegnamento ed hanno tratto le conseguenze logico-giuridiche, in termini di proporzionalita’, tra “fatto commesso” e sanzione irrogata (al riguardo, si veda, in particolare, pag. 11 della sentenza impugnata, in cui viene, altresi’, sottolineato che il comando di cui si tratta “non discende neppure dal CCNL di riferimento. A tal riguardo, posto quanto dedotto nel presente motivo di appello, in ordine alla riconducibilita’ di tale comando alla disposizione contrattuale di cui all’articolo 49, il Collegio non puo’ non rilevare l’estrema genericita’ della suddetta disposizione, tanto da non potere offrire il riferimento preteso”), pervenendo ad un giudizio favorevole al dipendente, previa valutazione, in concreto, ai fini del giudizio sulla proporzionalita’, del fatto che il comportamento tenuto dall’ (OMISSIS) non fosse tale da compromettere la fiducia del datore di lavoro e da far ritenere che la prosecuzione del rapporto si risolvesse in un pregiudizio per gli scopi aziendali, secondo un apprezzamento di merito non sindacabile in sede di legittimita’, perche’ congruamente motivato (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 18195/2019; 12787/2019; 6606/2018).
2.2. Il secondo motivo non e’ meritevole di accoglimento, perche’ teso, all’evidenza ad ottenere un nuovo esame del merito, censurandosi, nella sostanza, un vizio di motivazione (secondo quanto enunciato a pag. 12 del ricorso). Inoltre, nello stesso, le censure sono direttamente ancorate all’esame di documentazione – quale l’estratto dell’organico della societa’ – non prodotta, ne’ indicata tra i documenti depositati con il ricorso di legittimita’, ne’ trascritta, in violazione del disposto dell’articolo 366 c.p.c., comma 1, n. 3. Al riguardo, valgano le considerazioni svolte sub 1.1. circa la seconda parte della censura.
3.3. Il terzo motivo non e’ fondato, dato il corretto e condivisibile iter argomentativo logico-giuridico – supportato da cospicui richiami agli arresti giurisprudenziali della Suprema Corte (v. pagg. 12 e 13 della sentenza impugnata) – dei giudici di merito in ordine alla “nozione di retribuzione globale di fatto, alla quale, secondo la L. n. 300 del 1970, va commisurato il risarcimento del danno spettante al lavoratore illegittimamente licenziato”, da intendere “come coacervo delle somme che risultino dovute, anche in via non continuativa, purche’ non occasionale, in dipendenza del rapporto di lavoro ed in correlazione ai contenuti ed alle modalita’ di esecuzione della prestazione lavorativa, cosi’ da costituire il trattamento economico normale che sarebbe stato effettivamente goduto, se non vi fosse stata l’estromissione dall’azienda”. Per la qual cosa, facendo applicazione di “tali principi al caso di specie, l’indennita’ di volo non puo’ non essere ricompresa nella retribuzione globale di fatto, parametro per il risarcimento del danno del lavoratore illegittimamente licenziato, essendo compenso di carattere continuativo che si ricollega alle particolari modalita’ della prestazione…” (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 21425/2015; 11691/2015; 215/2004).
4. Pertanto, alla stregua di tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato.
5. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
6. Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui al Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la societa’ ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimita’, liquidate in Euro 5.500,00 per compenso professionale ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da’ atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis, se dovuto.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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