Responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente

Corte di Cassazione, civile, Ordinanza|7 febbraio 2023| n. 3692.

Responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente

In tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile una condotta di “mobbing”, per l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare la pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli, è ravvisabile la violazione dell’art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio per la personalità e la salute latamente intesi.

Ordinanza|7 febbraio 2023| n. 3692. Responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente

Data udienza 3 novembre 2022

Integrale

Tag/parola chiave: Pubblico impiego contrattualizzato – Demansionamento – Comportamenti tali da creare disagio o stress – Rilevanza – Danno esistenziale – Modifica delle abitudini di vita e frustrazione delle aspettative professionali – Art. 2729 cc

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente
Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere

Dott. CASCIARO Salvatore – Consigliere

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14092/2017 R.G. proposto da:
(OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’Avv. (OMISSIS), che lo rappresenta e difende con l’Avv. (OMISSIS);
– ricorrente –
contro
UNIVERSITA’ DELLA CALABRIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI N. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO che la rappresentata e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1438/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 24/11/2016 R.G.N. 1632/2010;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 3/11/2022 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA.

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RILEVATO

che:
1. con sentenza n. 1438/2016 del 24 novembre 2016, la Corte d’appello di Catanzaro, decidendo sulle impugnazioni proposte da (OMISSIS) e dall’Universita’ della Calabria, confermava la pronuncia del Tribunale di Cosenza nella parte in cui aveva accolto parzialmente il ricorso proposto dal (OMISSIS), dipendente amministrativo dell’Universita’ con livello D, riconosciuto il demansionamento lamentato e disposto la reintegra nelle mansioni corrispondenti all’inquadramento posseduto con condanna dell’universita’ al danno non patrimoniale e pari alla “differenza” tra l’importo di Euro 35.189,31 (per il danno biologico permanente accertato, a mezzo ctu medico-legale, sulla base di una percentuale pari al 20%) e quello liquidabile a titolo di danno biologico in applicazione delle tabelle Inail, oltre alla somma di Euro 4.121,00 per indennita’ temporanea ed Euro 310,00 per rimborso delle spese mediche sostenute;
riteneva la Corte territoriale che effettivamente vi fosse stata l’assegnazione a mansioni inferiori del (OMISSIS) ed in relazione a questa che fosse stato provato il danno biologico;
escludeva la fondatezza della domanda di risarcimento del danno da mobbing, ritenendolo insussistente;
al riguardo evidenziava che in sede di ricorso di primo grado il (OMISSIS) non aveva allegato quale fosse il suo bagaglio di conoscenze professionali, (indicandone puntualmente il contenuto) che era andato irrimediabilmente perduto a causa del progressivo svuotamento delle mansioni ne’ aveva allegato quali erano stati i corsi di aggiornamento ai quali aveva richiesto di partecipare e che gli avrebbero consentito – in considerazione dell’oggetto – di accrescere il suo bagaglio professionale;
quanto alle altri voci di danno, escludeva che il danno morale potesse essere risarcito sulla base della generica affermazione della lesione di un interesse costituzionalmente tutelato, mentre in ordine al danno esistenziale (quale lesione della vita di relazione sub specie di allontanamento dalla vita politica alla quale prima partecipava) rilevava che il teste (OMISSIS) (cfr. deposizione resa in primo grado) non aveva riferito nulla di significativo, essendosi limitato ad affermare solo che ad un certo punto il (OMISSIS) si allontano’ dalla vita politica, affermazione che, pero’, non consentiva di mettere in alcuna correlazione tale evento con le vicende lavorative;
2. avverso tale statuizione ha proposto ricorso (OMISSIS) con tre motivi;
3. l’Universita’ della Calabria ha resistito con controricorso;
4. il ricorrente ha depositato memoria.

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CONSIDERATO

che:
1. con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 2103, 1218 e 2087 c.c., in relazione all’articolo 2059 c.c., ex articolo 360 c.p.c., n. 3; violazione e falsa applicazione degli articoli 2727 c.c. e segg., dell’articolo 115 c.p.c., in relazione alla mancata valutazione delle prove raggiunte in primo grado – ex articolo 360 c.p.c., n. 3; violazione e falsa applicazione dell’articolo 1226 c.c., e articolo 432 c.p.c., in relazione alla mancata valutazione in via equitativa del danno – ex articolo 360 c.p.c., n. 3; violazione e falsa applicazione, dell’articolo 35 Cost.;
premette che le norme la cui violazione e’ denunciata sono poste dal legislatore a tutela di un diritto assoluto del lavoratore, quello inerente alla propria personalita’ e professionalita’;
censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha rigettato la proposta domanda risarcitoria con riferimento al “danno alla professionalita’” derivante dal demansionamento subito;
deduce che la colpevole condotta dell’UNICAL ha determinato un danno alla sua professionalita’, quale dipendente di elevato inquadramento addetto, con corrispondente grado di responsabilita’, alla “gestione amministrativa e contabile” di un Dipartimento universitario ed ha comportato, per la forzata inattivita’ cui egli e’ stato costretto, una inevitabilmente l’obsolescenza delle competenze e conoscenze procedurali, normative, di mercato e di finanza, in anni peraltro in cui si sono verificate straordinari interventi legislativi di riforma delle universita’ e della regolamentazione fiscale e contabile degli Enti pubblici periferici e autonomi;
aggiunge che, per la mancata assegnazione di mansioni, esso ricorrente ha perso la chance di aggiudicarsi i premi di produttivita’, sempre ricevuti negli anni passati;
rileva che l’orientamento giurisprudenziale prevalente ritiene che il danno alla professionalita’, considerata quale insieme di conoscenze teorico-pratiche che il lavoratore puo’ acquisire prestando la sua attivita’ lavorativa in mansioni confacenti, conseguente al demansionamento o alla dequalificazione debba essere dimostrato in giudizio dal lavoratore anche attraverso presunzioni semplici, come statuito dall’articolo 2729 c.c.;
assume che vi erano state precise allegazioni e cosi’: la natura e la durata del demansionamento, la gravita’ dello stesso, la conoscibilita’ dell’evento all’esterno, la perdita della professionalita’ sulla base delle quali ritenere presuntivamente sussistente il pregiudizio;

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inoltre, era stato dedotto il mancato guadagno del premio annuale di produttivita’ a causa del conseguimento di una valutazione bassissima, in luogo delle precedenti di livello nettamente superiore, causata essenzialmente dal demansionamento subito, a partire dal 2003, e dalla perdita dei compiti rilevanti che ne avevano da sempre caratterizzato la prestazione lavorativa;
aggiunge che nel corso del giudizio era stato provato che: a) le mansioni assegnate al ricorrente in epoca successiva all’inizio del 2003 erano state mansioni minime (fare fotocopie, compilare lettere prestampate e completare mandati di pagamento) o addirittura nulle; b) la suddetta condizione si era protratta dagli inizi del 2003, e quindi da oltre 7 anni; c) i colleghi di lavoro del ricorrente e i suoi superiori erano a conoscenza del suo livello di inquadramento prima, e delle mansioni (o della totale privazione delle stesse) assegnate dopo (cfr. testi (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS)); d) il ricorrente non aveva piu’ avuto dal 2003 in poi la possibilita’ di partecipare ad attivita’ formative;
2. il motivo e’ fondato;
a fronte di un accertato sostanziale svuotamento di mansioni e di uno svilimento dei compiti assegnati al (OMISSIS), ridotti ad attivita’ meramente esecutive, prive di ogni autonomia concettuale (v. pag. 8 della sentenza impugnata) e degli elementi allegati a sostegno del danno professionale (caratteristiche dei compiti svolti fino al 2003, durata e gravita’ del demansionamento, veloce obsolescenza delle competenze e conoscenze procedurali, normative, di mercato e di finanza, in ragione degli interventi legislativi di riforma delle Universita’ e della regolamentazione fiscale e contabile degli Enti pubblici periferici e autonomi cui aveva anche aggiunto la perdita di chances di aggiudicarsi i premi di produttivita’), vi era quanto richiesto da questa Corte di legittimita’ per integrare una deduzione presuntiva giuridicamente valida;
come da questa Corte anche di recente affermato (v. Cass. 8 aprile 2022, n. 11499), ove si sia concretizzato, con la destinazione del dipendente ad altre mansioni, il sostanziale svuotamento dell’attivita’ lavorativa, la vicenda esula dalle problematiche attinenti alla verifica dell’equivalenza formale delle mansioni del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, ex articolo 52, configurandosi non un demansionamento, ma la diversa e piu’ grave figura della sottrazione pressoche’ integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego;

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e’ stato anche puntualizzato, sempre in tema di mansioni, (v. Cass. 18 maggio 2012, n. 7963) che il comportamento del datore di lavoro che lascia in condizione di inattivita’ il dipendente non solo viola l’articolo 2103 c.c. (e cosi’ anche del Decreto Legislativo n. 165 del 2001, articolo 52), ma e’ al tempo stesso lesivo del fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalita’ di ciascun cittadino, nonche’ dell’immagine e della professionalita’ del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza; tale comportamento si traduce in una lesione di un bene immateriale per eccellenza, qual e’ la dignita’ professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilita’ e le proprie capacita’ nel contesto lavorativo, e tale lesione produce automaticamente un danno (non economico, ma comunque) rilevante sul piano patrimoniale (per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore), suscettibile di valutazione e risarcimento anche in via equitativa;
e’ stato, inoltre, affermato, nella specifica materia del pubblico impiego privatizzato, che, ove sia stato accertato il demansionamento professionale del lavoratore, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, puo’ desumere l’esistenza del relativo danno, determinandone anche l’entita’ in via equitativa, con processo logico-giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualita’ e quantita’ della esperienza lavorativa pregressa, alla natura della professionalita’ coinvolta, alla durata del demansionamento, all’esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass., 26 novembre 2008, n. 28274; si vedano, nel medesimo senso, Cass. 19 settembre 2014, n. 19778; Cass. 15 ottobre 2018, n. 25743; Cass. 3 gennaio 2019, n. 21; Cass. 23 luglio 2019, n. 19923; Cass. 2 ottobre 2019, n. 24585);
nella specie, dunque, non si trattava di riconoscere un danno alla professionalita’ per il solo fatto del demansionamento (come se si trattasse di un danno in re ipsa) ma di valutare tutti gli elementi allegati (e cosi’ il contenuto in termini di professionalita’ e di elevata responsabilita’ dei compiti svolti per lunghi anni prima del lamentato demansionamento, la prolungata e ingiustificata emarginazione e pressoche’ totale inoperosita’, la veloce obsolescenza delle competenze e conoscenze procedurali, normative, di mercato e di finanza, in anni caratterizzati da interventi legislativi riformatori, i dinieghi opposti alle richieste di partecipazione corsi di formazione) quali elementi utili ai fini della prova, anche presuntiva, della lesione del diritto del lavoratore alla libera esplicazione della sua personalita’ sul luogo di lavoro (articoli 1, 2 Cost.) e di degrado della professionalita’ acquisita e dei conseguenti riflessi sulla sua vita sociale e di relazione;
3. con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli articoli 2087 e 2043 c.c., in relazione all’articolo 2059 c.c., relativamente all’esclusione della figura del mobbing – articolo 360 c.p.c., n. 3; violazione dell’articolo 115 c.p.c., relativamente alla mancata valutazione delle prove espletate in giudizio – articolo 360 c.p.c., n. 3; insufficiente motivazione circa un fatto decisivo della controversia – articolo 360 c.p.c., n. 5;
censura la sentenza nella parte in cui ha escluso la sussistenza del mobbing nella vicenda lavorativa che ha interessato esso ricorrente;

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rileva che sulla base del corposo materiale probatorio acquisito in giudizio (attestante che: – il suo trasferimento aveva determinato non solo un insopportabile demansionamento ma anche una totale privazione delle mansioni; si era trattato di un trasferimento che – come evidenziato nella relazione del Collegio dei Probiviri – non solo non era stato debitamente motivato ma conteneva anche taluni passaggi cosi’ contraddittori tra loro da suscitare l’impressione di una certa pretestuosita’; – la vicenda lavorativa era stata caratterizzata anche dall’esercizio della potesta’ disciplinare in maniera altrettanto pretestuosa e vessatoria), la Corte territoriale avrebbe dovuto ritenere la sussistenza di un comportamento datoriale violativo dell’obbligo di tutela di cui all’articolo 2087 c.c., realizzatosi attraverso una condotta sistematica e protratta nel tempo che aveva finito per assumere le forme di una prevaricazione o persecuzione psicologica con conseguenti mortificazione morale ed emarginazione tipiche del mobbing;
aggiunge che il lavoratore non era – e non e’ – tenuto a dimostrare l’elemento soggettivo della condotta persecutoria tenuta dal datore di lavoro, come erroneamente statuito dalla Corte territoriale;
4. il motivo e’ fondato nei termini di seguito illustrati;
secondo gli orientamenti maturati presso questa S.C. si puo’ ritenere che e’ configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralita’ continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684) e cio’ a prescindere dalla illegittimita’ intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell’ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui e’ in re ipsa ragione di violazione dell’articolo 2087 c.c., e quindi di responsabilita’ contrattuale, anche con i maggiori effetti di cui all’articolo 1225 c.c., per il caso di dolo;
e’ configurabile lo straining, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralita’ delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164);
al di la’ di denominazioni destinate ad avere piu’ che altro valenza sociologica, e’ illegittimo che il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291), lungo la falsariga della responsabilita’ colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute, cioe’ nociva, ancora secondo il paradigma di cui all’articolo 2087 c.c.;
e’, infatti, comunque configurabile la responsabilita’ datoriale a fronte di un mero inadempimento – imputabile anche solo per colpa – che si ponga in nesso causale con un danno alla salute del dipendente (ad es. applicazione di plurime sanzioni illegittime: Cass. 20 giugno 2018, n. 16256; comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale: Cass. 20 aprile 2018, n. 9901) e cio’ secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilita’ contrattuale (articoli 1218 e 1223 c.c.);
si resta invece al di fuori della responsabilita’ ove i pregiudizi derivino dalla qualita’ intrinsecamente ed inevitabilmente pericolosa o usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028; Cass. 25 gennaio 2021, n. 1509) o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravita’, come tali non risarcibili (Cass., S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972) e questa S.C. ha del resto gia’ ritenuto che le condizioni ordinariamente usuranti dal punto di vista psichico (Cass. 3028/2013 cit. e, prima Cass. 21 ottobre 1997, n. 10361), per effetto della ricorrenza di contatti umani in un contesto organizzativo e gerarchico, per quanto possano eventualmente costituire fondamento per la tutela assicurativa pubblica (Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965 e Decreto Legislativo n. 38 del 2000, nelle forme della c.d. “costrittivita’ organizzativa”), non sono in se’ ragione di responsabilita’ datoriale, se appunto non si ravvisino gli estremi della colpa comunque insiti nel disposto dell’articolo 2087 c.c.;
ed e’ evidente che, se il datore di lavoro abbia tenuto un comportamento consono al contesto, per escludere il danno dovrebbe in realta’ vietarsi l’attivita’, il che non puo’ essere se non quando la legge lo stabilisca (v. anche Cass. 1509/2021, cit.);
tutto cio’ permette alcune precisazioni, nel solco di cui a Cass. 3291/2016, cit.;
nella specie, la Corte territoriale, ha accertato un grave e protratto demansionamento causativo di danno alla salute e, dunque, un inadempimento datoriale ad obblighi di appropriatezza nella gestione del personale, gia’ rilevante ai sensi dell’articolo 2087 c.c.; muovendo da cio’, e’ allora evidente che anche gli altri episodi denunciati, lungi dal poter essere negletti e sviliti ad episodi non denotanti, in se’, un intento persecutorio avrebbero dovuto necessariamente essere apprezzati nel quadro generale della vicenda lavorativa, al fine di valutare la complessiva legittimita’ o meno dei comportamenti datoriali anche rispetto all’obbligo (del pari riconducibile all’articolo 2087 c.c.) di evitare lo svolgimento della prestazione con modalita’ ed in un contesto indebitamente “stressogeno”;
quello che andava indagato era l’esistenza di una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato nella quale il (OMISSIS) avesse subito azioni ostili, anche se limitate nel numero e in parte distanziate nel tempo – quindi non rientranti, tout court, nei parametri tradizionali del mobbing – tali, comunque, da provocare una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa, atta ad incidere sul suo diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare, non solo il demansionamento ed ancor piu’, come nella specie, una privazione delle mansioni, ma anche situazioni “stressogene” che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravita’, frustrazione personale o professionale, possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno, anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (v. Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291);
la denunciata violazione dell’articolo 2087 c.c., norma che tende a realizzare la tutela di un interesse di carattere generale ed impone di adoperare le cautele che rendano sicuro l’ambiente di lavoro siccome come comprensivo di tutti i luoghi in cui il lavoratore ha possibilita’ di accesso, quale che ne sia il motivo ed a prescindere dalla ricorrenza in concreto di esigenze connesse alle mansioni espletate;
in questa cornice, l’articolo 2087 c.c., postula la rilevanza di quei doveri del datore di lavoro nei confronti dei suoi subordinati che esulano il mero rispetto delle norme di sicurezza prescritte esplicitamente essendo estese all’obbligo generale di prevedere ogni possibile conseguenza negativa della mancanza di equilibrio tra organizzazione di lavoro e personale impiegato;
diviene imprescindibile, in quest’ottica, porre attenzione a tutti i comportamenti, anche in se’ non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravita’ del pregiudizio per la personalita’ e la salute latamente intesi;
5. con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’articolo 2059 c.c., relativamente all’esclusione del danno morale ed esistenziale – articolo 360 c.p.c., n. 3 -; violazione dell’articolo 115 c.p.c. relativamente alla mancata valutazione delle prove espletate in giudizio – articolo 360 c.p.c., n. 3 -; violazione e falsa applicazione dell’articolo 35 Cost.; insufficiente motivazione circa un fatto decisivo della controversia;
censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la sussistenza del danno esistenziale e, in generale, disconosciuto la sussistenza del danno morale in capo al (OMISSIS);
rileva che la svolta prova aveva consentito di acclarare che il (OMISSIS) aveva subito anche danni di tipo esistenziale, essendosi modificate le sue abitudini di vita (non solo professionale), con conseguente frustrazione delle aspettative maturate in ordine al rapporto lavorativo oggetto di causa;
6. il motivo, in quanto afferente ad una riconsiderazione di tutti gli aspetti di violazione dell’articolo 2087 c.c., sopra considerati, e’ assorbito nella decisione dei due motivi che precedono;
7. da tanto consegue che vanno accolti i primi due motivi di ricorso, nei sensi di cui in motivazione, assorbito il terzo; la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio alla Corte d’appello di Catanzaro che, in diversa composizione, procedera’ ad un nuovo esame tenendo conto dei principi sopra affermati e provvedera’ anche sulle spese del presente giudizio di legittimita’;
8. non sussistono le condizioni di cui del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte accoglie i primi due motivi di ricorso, nei sensi di cui in motivazione, assorbito il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Catanzaro in diversa composizione.

 

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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